di Gianfranco Quaglia
Giuseppe Martelli non dimenticherà mai la primavera 1986. Proprio trent’anni fa, in questi giorni, Martelli (allora giovane direttore di Assoenologi e oggi presidentedel Comitato Vini del Ministero) si trovò ad affrontare il periodo più buio della storia del vino italiano, lo scandalo el metanolo: il prodotto adulterato con alcol metilico al punto da provocare la morte di alcuni consumatori e la cecità di altri. Quella serie di episodi sembrò decretare la parola fine per il vino made in Italy. “Proprio nel momento in cui – ricorda Martelli – attraversavamo una fase molto positiva, il mondo dei produttori stava cambiando pelle, le aziende non puntavano più sull’ammasso ma diventavano punti di riferimento dell’immagine e della cultura del vino. Lo scandalo del metanolo si abbattè come una bastonata anche sugli onesti. Era nato come frode commerciale, dovuta ai disonesti che invece di distruggere i surplus di vino lo misero in commercio aggiungendo alcol metilico, soprattuto ai prodotti di bassa lega, dove l’alcol era già preponderante. Un disastro, partito dal Piemonte. La frode commerciale poi diventò anche fiscale, crollò l’immagine del vino italiano in tutto il mondo, con una forte presa di posizione da parte dei diretti concorrenti, i francesi. Occorreva dare un colpo di reni per risorgere”.
Martelli ricorda bene quei giorni, il palleggio di responsiabilità e le accuse reciproche da parte di produttori, imbottigliatori, commercianti. Lo scaricabarile non faceva altro che aumentare la polemica e diminuire la credibilità. “Lo spartiacque era rappresentato dalla legge, dalla rigidità delle norme, l’autocontrollo. Enzo Biagi chiese che qualcuno del mondo del vino andasse a Il Fatto per spiegare che cosa stesse accadendo. Nessuno voleva esporsi, alla fine affidarono a me, in quanto rappresentante di Assoenologi, il compito di assumersi quella repsonsabilità davanti ai telespettatori. E io non esitai a dichiarare che quanto avvenuto era una cosa gravissima e che occorreva ribaltare la situazione colpendo i disonesti”.
Cominciò da quell’atteggiamento il Rinascimento del vino italiano. A Martelli si unirono gli enologi, il presidente Ezio Rivella, la maggioranza dei produttori onesti. In Piemonte, la regione che più di altre era sotto lente d’ingrandimento, nacque la prima Doc regionale, un passo necessario e quasi obbligato – ricorda Martelli – per consentire l’applicazione di controlli e garantire la rispondenza con la legge. La presa di coscienza si diffuse, le cantine diventarono punti di riferimento, furono tolte le ragnatele. Sulle tavole dei consumatori sparirono i bottiglioni sostituiti da bottiglie etichettate. Si incominciò a respirare quell’aria di primavera che nel giro di trent’anni ha portato il vino italiano a essere oggi il traino dell’export agroalimentare, con punte di eccellenza in Usa, Giappone, Canada. “Tutto merito di una mentalità che in questo trentennio ha privilegiato la qualità – aggiunge Martelli – . Da quando si è cominciato a produrre per vendere c’è stata l’inversione di tendenza, così come è stato determinante il cambio dai contributi a pioggia al nuovo sistema Ocm”.
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