C’è una guerra del risotto, tra Italia e Cina, non dichiarata, ma sottotraccia, combattuta a colpi di documenti e veti. Parte da lontano, forse dal giorno in cui, alcuni anni fa, Riso Gallo per primo tentò, e anche con discreto successo, di esportare nella Repubblica cinese il riso prodotto nei campi italiani e finalizzato alla preparazione di risotti.
Da qualche tempo la guerra si è acuita, tanto da finire anche sui tavoli del G20 a Shangai, dove l’argomento è stato sollevato in tutta la sua dimensione. In altre parole: il governo di Pechino ha predisposto un documento contenente regole da rispettare per l’ingresso di prodotto italiano in quel Paese. Un protocollo rigido, che dal punto di vista fitosanitario considera il prodotto non come alimento, ma semente, e quindi soggetto a tutti i controlli preliminari. La decisione fa seguito alle numerose visite che i funzionari cinesi hanno compiuto in Italia, interessati a importare derrate di riso made in Italy. Tutto sembrava a posto, anche perché la normativa italiana sotto il profilo della sicurezza e della salubrità è molto rigido.
Invece, la sorpresa. La Cina ha imposto, almeno per il momento, l’aut aut. Dell’argomento si è parlato anche al’ultimo tavolo agroalimentare riunitosi al Ministero delle Politiche Agricole: sarà ripreso il 28 ottobre durante un incontro con le autorità cinesi.
Il voltafaccia cinese è da mettere in relazione con i controlli, altrettanto rigidi, che l’Europa applica nei confronti di prodotti a base di riso provenienti dalla Cina e respinti alla frontiera quasi ogni settimana perché contenenti residui di pesticidi o altri materiali non conformi alle normative Ue? Non esiste una risposta, ma il sospetto c’è.
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