Non è un ordine di servizio o un decreto legge per aumentare il Pil e diminuire il peso corporeo.
Semplicemente è il quadro che emerge da un’analisi che la Coldiretti ha condotto sula base dei dati Istat
sull’inflazione dello scorso anno rispetto al 2022. Nel 2023 gli italiani hanno speso circa 9 miliardi in più
per gli acquisti nel carrello della spesa alimentare ma al tempo stesso hanno dovuto tagliare le quantità
dei prodotti da portare in tavola. Questa è l’amara constatazione. I numeri lo dimostrano: nel 2023 c’è
stata un crescita media annua degli alimentari del 9,8% rispetto all’8,8 del 2022. La tendenza si è
leggermente attenuata a dicembre con i prezzi dei beni alimentari aumentati in media del 5,8%, ma non
per tutti: per la frutta fresca e refrigerata si è saliti al +13,9% e al +13,1 per i vegetali. Incrementi che
fanno pensare a un maggior guadagno da parte dei coltivatori: non è stato così; anzi, gli agricoltori in
molti casi non sono riusciti neppure a fronteggiare i costi di produzione, mentre tutto il resto dela filiera ha
applicato incrementi che si riversano sul consumatore. Quest’ultimo si è fatto più attento, privilegiando
sconti e promozioni e tagliando gli sprechi, con una maggiore sensibilità verso la riduzione del cibo che
finisce nella pattumiera. Insomma, c’è stato il trionfo della cucina degli avanzi.
L’allargamento della forbice campo-tavola non è un fenomeno soltanto italiano. La Fao ha monitorato i
prezzi del cibo in tutti i continenti, concludendo che ai contadini i prodotti agricoli vengono pagati il 13,7%
in meno. Complessivamente i cali vanno dal -17% per il latte alla stalla al -15% per i cereali nei campi.
Viceversa è cresciuta l’inflazione alimentare con i prezzi per il cibo che vanno mediamente dal +2,9% in
Usa al +6,8% in UE. Ma gli aumenti a due cifre, purtroppo, si registrano nei paesi più poveri: +23,1% nel
Burundi, +27,5% nel Pakistan, +32,2% nel Ghana.
Spendere di più e mangiare di meno
di Gianfranco Quaglia
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