Il 30 per cento delle sementi di riso in Italia non è certificato. A lanciare l’allarme è Massimo Biloni, coordinatore del gruppo riso di Assosementi, l’asociazione che rappresenta le ditte sementiere, durante la giornata sulla risicoltura d’eccellenza che si è svolta al Centro Ricerche Ente Nazionale Risi. “L’utilizzo di semi certificati – aggiunge Biloni – è il solo strumento che garantisce la sanità e la germinabilità del seme, oltre che la sua identità varietale, quindi è il presupposto a garanzia di produzioni di qualità e sicure per il consumatore”.
Il fenomeno non è nuovo, ma sta aumentando e va in controtendenza rispetto alle numerose sollecitazioni e agli appelli nei confronti degli agricoltori. Nel grande oceano della legalità (il 70 per cento del riso è certificato) questa zona d’ombra rappresenta un sommerso che sfugge ai controlli, soprattutto quelli economici: infatti la cessione del seme certificato per legge determina il pagamento di un diritto, cioè di una royalty. Complessivamente, ogni anno la mancata corresponsione del compenso previsto sarebbe superiore al milione di euro. Insomma, un “nero” che sfuggirebbe a tutti gli organismi di controllo. Ma come può avvenire tutto ciò? A favorire questa tendenza sarebbe un parte degli stessi produttori, il 15 per cento dei quali reimpiega il seme non certificato nella sua stessa azienda, il restante 15% lo vende ad altri agricoltori.
All’aumento delle illegalità si contrappone, per fortuna, l’impegno del settore sementiero per la costituzione di nuove varietà: quelle più recenti, con meno di cinque anni di vita, hanno conquistato il 40 per cento del mercato, seguite da un altro 27% di quelle tra i 6 e i 15 anni. Significa che una larga fascia di produttori investe sull’innovazione e che la ricerca è al centro delle scelte aziendali.
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