di Gianfranco Quaglia
Definirlo “Chef delle Alpi” sarebbe riduttivo e improprio. Perché Norbert Niederkofler, tre stelle Michelin, ha sempre guardato oltre i confini dell’AltaVal Badia, il regno di partenza e d’arrivo, dove Norbert crea capolavori nella cucina del suo ristorante St. Hubertus. Da qui si è mosso per frequentare i corsi alla scuola alberghiera al Tegernsee, in Germania, ha proseguito la formazione in Italia e nei ristoranti più rinomati di Londra, Zurigo, Milano, da Eckart di Monaco di Baviera e David Bouley di New York. Poi è tornato ricco di esperienza, ma anche spinto da una voglia irrefrenebabile di innovare e sperimentare ogni giorno.
Il suo motto è: la varietà sta nel mescolare la semplicità. E sulla base di questa convinzione cinque anni fa ha deciso di seguire la filosofia “Cook the mountain”, un progetto di promozione e valorizzazionedella gastronomia montana, cpon tutto il suo indotto.
Fatte queste premese, come potremmo parlare con lui di riso e risotti?
“Tutt’altro – replica – il riso è uno dei miei piatti preferiti. Con uesto prodotto mi piace cimentarmi e sbizzarrirmi”.
Ma lei appartiene alla scuola degli chef che cominciano dal soffritto?
“Nemmeno per sogno. Il riso va cucinato senza soffritto, facendolo rosolare poco alla volta, lasciandolo riposare, poi mescolandolo soltanto con l’acqua. E’ l’unico modo per esaltare le proprietà del chicco. E soltanto alla fine si aggiungono gli ingredienti, verdure o altro, già cotti in un altro recipiente”.
E un poco di vino?
“Oggi vanno di moda le bollicine. Perfette con il riso, ma anche queste vanno aggiunte a fine cottura, non durante o prima, per esaltare i sapori”.
Tutto qui?
“Non sempre è così facile. Il riso è un alimento versatile, ma anche suscettibile, come le persone. Un buon Carnaroli prodotto e cucinato in pianura, cioè nella zona d’origine, cambia quando lo si cucina in montagna. Risente dell’ambiente, dell’altitudine, del clima. Occorre saper scegliere la vairetà giusta per il posto giusto e questo obiettivo lo si raggiunge soltanto provando, facendo esperienza. Non bisogna fossilizzarsi su stereotipi”.
Lei è uno chef giramondo, di quello che si mettono in gioco e non disdegnano confrontarsi. Quindi è anche ambasciatore del nostro Made in Italy. Può raccontarci qualche episodio di cui è stato protagonista o testimonial?
“Una volta, in Nepal, a 5500 metri, ho cucinato il riso Made in Italy per gli sherpa…”
Quindi ai piedi delle vette più alte del mondo. E come è andata?
“Eravamo reduci da una lunga escursione su quelle montagne, gli sherpa si erano prodigati in tutti i modi per settimane per me e altri amici che partecipavano a quell’avventura. Al termine del viaggio sentii il bisogno di ringraziarli per la loro gentilezza e decisi di cucinare il risotto. Per quei ragazzi era una novità assoluta”.
Il risultato?
“Fu l’impresa più difficile, a conferma che a quelle quote, pur con il fuoco alimentato da una bombola a gas, è difficile ottenere un risultato soddisfacente. Riocordo che il riso bolliva e bolliva e non arrivava mai a cottura accettabile. Ci impiegai quasi un’ora, alla fine il risotto con il pomodoro che avevo portato dall’Italia fu pronto e lo scodellai. Non ero molto soddisfatto, eppure gli sherpa apprezzarono e furono entusiasti. Ma il riso dell’Himalaya, come fu battezzato, non lo proposi più. Troppo difficile da realizzare”.
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