di Gianfranco Quaglia
La questione dell’olio tunisino che entra in Europa a dazio zero e mette in difficoltà i nostri produttori è soltanto l’ultimo anello di una catena che da anni sta stringendo come in una morsa gli agricoltori italiani. La notizia è al centro di una polemica che dura da giorni e turba le aspettative del mondo agricolo italiano, che con l’inizio della primavera si rimette in moto e in gioco, pronto a cominciare la nuova annata agraria. Bruxelles ha dato il via libera a 35 mila tonnellate di olio tunisino verso l’Ue, che si aggiungono alle 57.000 frutto di un precedente accordo. Il motivo? Riequilibrare le sorti dell’economia che dopo gli attentati terroristici ha subito un forte tracollo nel settore turistico. In altre parole: persi i flussi del turismo occidentale, occorre compensare il Paese della “primavera araba” con qualcosa che ripaghi del sacrificio. Tanto che la Mogherini tempo fa aveva dichiarato: “Circostanze eccezionali richiedono misure eccezionali”. Purtroppo non basta questa spiegazione e neppure sono sufficienti le rassicurazioni secondo cui quel prodotto non influirà sull’olio Made in Italy in quanto non è extravergine. I produttori italiani sono scettici. L’olivicoltura in Tunisia dà lavoro a un milione di persone e tra queste c’è anche il primo ministro del governo tunisino, Habib Essid, grande produttore di olio.
Ma a prescindere dalle illazioni, dai sospetti e dalle insinuazioni, un fatto è certo: l’agricoltura è merce di scambio e a farne le spese sono in particolare gli italiani. Non solo per l’olio. La valanga di merce che arriva dall’estero ormai è inarrestabile e ha proporzioni mega. Si pensi al miele: oltre il 40% venduto in Italia è di provenienza straniera, come dire che quasi un vasetto su due contiene prodotto oltreconfine. E le arance? Sono note le proteste degli agrumicoltori di Sicilia e Calabria? Per non parlare delle noci, che arrivano anche dal Cile. Infine, ma non ultimo, il riso. Ne sanno qualcosa i risicoltori impegnati ormai da anni in una battaglia che sembra non avere più ascolto: gli ultimi dati ci raccontano di una cascata di riso asiatico che si riversa sull’area Ue senza soluzione di continuità. Dai Pma (Paesi meno avanzati) si è avuto un incremento del 42% in questa ultima campagna: nel dettaglio +51% dalla Cambogia re +12% dal Myanmar. Tutto prodotto esportato a dazio zero, per favorire le economie di quei Paesi in via di sviluppo. Inutili le proteste e le richieste di intervento a Bruxelles. Nell’area europea arriva riso tipo Indica, non da risotto, a prezzi decisamente concorrenziali nei confronti dello stesso tipo coltivato anche in Italia. L’andamento del mercato ha causato un dimezzamento della superficie coltivato a Indica nel nostro Paese, passata da 71 mila a 35 mila ettari. Con una previsione per l’imminente prossima campagna di un ulteriore taglio di circa duemila ettari e un aumento dell’altro riso appartenente allo japonica, esattamente l’opposto di quanto richiesto dalle industrie di trasformazione.
Il fatto è che risicoltori, così come i produttori di olio, miele, arance, sono in balia di dinamiche politico-economiche che esulano dalla loro possibilità di interdizione. E sono costretti a subirle.
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