di Gianfranco Quaglia
Dacci oggi il nostro pane quotidiano, guadagnarsi il pane. E ancora, per dirla con il sommo poeta, «Come sa di sale lo pane altrui». Oppure: portare a casa il pane, compito che oggi – a causa della crisi – diventa sempre più un’impresa o in qualche caso compito riservato alle donne, negli Stati Uniti definite <breadwinners>, perché una su otto rappresenta l’unica fonte di sostentamento del nucleo familiare. Oppure spezzare il pane come momento centrale della celebrazione dell’Eucaristia.
Tanti sono i modi per collocare al vertice della nostra vita il significato del nutrimento, inteso come momento di riflessione e relazione umana.
Questo dovrebbe essere il focus di Expo 2015, di cui non si dovrebbe mai dimenticare lo slogan «Nutrire il pianeta energia pe la vita».
Non un’abbuffata, dunque, ma occasione per interrogarci sul presente e il futuro. Ma anche sul passato. In questa direzione si colloca una mostra, a due passi da Expo, in quella Novara dirimpettaia che si affaccia sulla Lombardia e quindi su Rho Fiera Expo. L’idea arriva da don Tino Temporelli, responsabile della sezione inventario Ufficio Beni Culturali della Diocesi, e da don Walther Ruspi, responsabile dell’Ente Cattedrale, i quali hanno impaginato una mostra all’aperto, collocata nel porticato del Duomo, su il cibo nell’arte religiosa. Un percorso a ritroso dall’Antico Testamento al Medioevo con pannelli che riproducono opere pittoriche custodite nelle chiese. Tutte centrate sul momento della tavola, non inteso come esaltazione del cibo finalizzato solo al nutrimento corporale, ma opportunità di relazione e dialogo. Nell’arte pittorica il pane e il vino diventano elementi essenziali, dalle Ultime Cene di autori ignoti sino al cibo dei santi. Già, ma di che cosa si nutrivano i santi?
Di ciò che mangiavano tutti gli altri, uomini e donne, ossia di quel poco che passava il convento, come userebbe dire oggi per sottolineare la parsimonia a tavola.
La mostra di Novara ai tempi di Expo ci pone un interrogativo: come possiamo oggi tornare a vivere il nostro rapporto con il cibo in modo più umano? La risposta, ci arriva dal gesuita Jean Paul Hernandez: «Innanzitutto chiedendoci quale sia il processo produttivo che ha portato il cibo sul piatto, quali sono le ingiustizie provocate da tale prodotto. E poi ricercando la comunione di tavola con gli esclusi. Questo è un gesto semplicissimo che abbiano ereditato dalla Chiesa primitiva: in essa l’importante non era dar da mangiare a, ma mangiare con».
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