Di Gianfranco Quaglia
“L’essenziale è fare un risotto buono”. Comunque vadano le cose, le traversie della vita, le delusioni e le aspettative. Un antidoto allo smarrimento e alle incertezze che stiamo attraversando. Questo sembra volerci dire “Risotto”, spettacolo cult teatrale che Amedeo Fago, anche regista, porta in scena da 41 anni con l’inseparabile Fabrizio Beggiato. “Risotto” è nato a Roma per l’appunto nel 1978 e narra di una storia di amicizia tra due studenti, poi diventati adulti, ma sempre legati malgrado i matrimoni, le separazioni, i successi e gli insuccessi nel lavoro e nella vita abbiano tentato di separarli. Strade diverse, parallele, che spesso si sono intrecciate, scambiando le confidenze, i timori. Rappresentato in decine di teatri europei, da Roma a Parigi, San Pietroburgo a Barcellona, mancava di essere collocato in una ambientazione che più naturale di così non si poteva: la grande ex stalla della cascina Colombara, la secolare tenuta vercellese dove Piero Rondolino produce il riso Acquerello in lattina, famoso in tutto il mondo. Piero Rondolino, figura emblematica nel mondo della risicoltura, ha scoperto lo spettacolo a Roma e voluto regalarlo a un pubblico amico per la cerimonia e la festa organizzate per consegna del Premio Pannocchia d’Oro, di cui è stato insignito dal presidente Pier Luigi Bruni.
E così “Risotto” è andato in scena con i due protagonisti. Voce fuori campo raccontatrice del trascorrere di anni e avvenimenti, un percorso che rievoca con immagini sullo schermo un tratto della storia d’Italia, dagli Anni 60 all’attualità. Un’autobiografia che attraversa il ’68, arriva a Berlusconi, prosegue fra alti e bassi, ma sempre intercalato dal racconto di incontri dei due, che per fortuna si sono consolati davanti a un piatto fumante. Perché, come viene ripetuto con un intercalare quasi ossessivo, “l’essenziale è fare un risotto buono”. Quasi un motto, un richiamo alla coerenza e a fare le cose bene, unica vera chiave per ritrovare noi stessi e dare un senso all’esistenza. Un racconto appena velato da una lieve malinconia e nostalgia, ma condito – è proprio il caso di dirlo – dal risotto che uno dei due attori (scrupolosamente in silenzio entrambi) cucina sul palcoscenico durante tutto lo svolgersi della narrazione. Il tema è questo: ripercorrere quarant’anni di vita insieme ed al tempo stesso cucinare (non come finzione scenica ma realmente) un risotto a regola d’arte: brodo, cipolla, zafferano, mestolo di legno, profumi e aromi che impregnano la sala e stuzzicano l’appetito. Un “reality” della cucina, insaporita da una narrazione che va di pari passo con i tempi della cottura. Alla fine, un attimo di “suspence”: quel risotto sta per essere cancellato, rinnegato. Poi, il trionfo: quel piatto diventa quasi simbolo di un Rinascimento, e il risotto viene scodellato a tutti gli spettatori.
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