di Enrico Villa
L’erboristeria è la rivalutazione moderna di una sapienza antica. Nel 2012, l’associazione del comparto aderente a Confindustria ha fatto una ricerca e, limitatamente ai cosmetici, ha concluso che in Italia le erboristerie sfiorano le cinquecento con una concentrazione nel Nordovest e nel Nordest del paese. Altre ricerche, che confermano l’importanza del settore, spiegano che nell’Europa comunitaria, e non, quasi tutti i paesi del vecchio continente si sono dati una legislazione che codifica le erboristerie e i loro gestori. In genere, per affrontare il mercato dei derivati salutisti dalle erbe occorrono precisi corsi di formazione o una laura triennale, abbastanza simile alla laurea in farmacia, prevista da diverse università nazionali.
Ma la “materia prima”, su cui anche in periodi di crisi cresce l’erboristeria, è agricola. Specie in montagna e in collina alle erbe officinali da cui sono tratti numerosi prodotti industriali, farmacistici e venduti dalle parafarmacie sono dedicati orti molto organizzati sul modello delle aziende per la produzione dei fiori o per la verdura di alta qualità da cui si traggono gli ortaggi di quarta gamma. Anzi, le parafarmacie e la legislazione connessa hanno dato ulteriore impulso alle produzioni di erboristeria. Anche il modello di questi orti moderni, o delle coltivazioni intensive che integrano validamente l’attività primaria delle grandi colture e degli allevamenti, è antico. Nel periodo medioevale le comunità monastiche (Benedettini, Cistercensi eccetera) allestirono quelli che furono chiamati gli orti dei semplici. Di qui uscirono i “ceppi genetici” di cui ancora oggi abbiamo traccia. Accadde anche per il riso che maggiormente interessa la nostra area. I frati curarono le pianticine che poi moltiplicatesi divennero coltura. Quando Ludovico Il Moro e i veneziani nelle aziende dell’Est affrontarono la coltivazione del riso perché un seme si moltiplicava per nove risolvendo in parte il problema della fame del popolo, forse la prima selezione dell’Oriza Satyva veniva dagli orti dei semplici della Pianura Padana.
In quegli stessi anni l’erboristeria da sapienze degli sciamani e degli stregoni divenne scienza vera e propria. In realtà riprese il sopravvento il principio di Aristotele secondo il quale anche le piante hanno un’ anima e, quindi, grazie alle loro qualità intrinseche devono essere considerate con molta attenzione. Quegli stessi concetti aristotelici godettero di una fase di rilancio nella scienza di Galeno (Pergamo 129 a.c. – Roma 199) che per primo confermò la natura e le qualità curative delle piante riprendendo la sapienza sulle erbe risalente a decine di migliaia di anni nonché alle civiltà mediterranee e asiatiche. I principi galenici sono stati rivalutati, sia pur con cautela, anche nella nostra epoca sia dalla farmacopea ufficiale che dalla scienza medica. Partendo dalle coltivazioni agricole specializzate, il risultato economico contemporaneamente riguardante l’agricoltura e l’industria concernono gli integratori principalmente di origine vegetale, i cosmetici e i calmanti naturali in alternativa dei preparati di sintesi perché considerati meno tossici.
L’avvento massiccio dell’erboristeria (ma anche di alcuni minerali) con proprietà terapeutiche si ebbe nel XVIII Secolo. La conferma viene dalle ricerche archivistiche negli antichi ospedali anche piemontesi, adesso scomparsi o ridotti al rango d infermerie. Una di queste ricerche è stata fatta tempo fa (tuttora assai valida) sull’ospedale settecentesco di Trino e sulla Speciaria dell’Hospedale. Con un lavoro assai complesso Bruno Ferrarotti, già funzionario di ricerca dell’Università di Torino e la tecnologa farmaceutica Marina Gallarate esaminarono l’archivio dei medicinali dell’ospedale dedicato a San Antonio Abate. Ferrarotti andò oltre attraverso una faticosa ricerca bibliografica per dare il nome scientifico ai prodotti erboristici chiamati diversamente in linguaggio popolare dalla civiltà contadina. Anche i garofani fini (Garoffani fini) la cannella (canella fina) e altre essenze hanno ripreso la loro anima aristotelica curativa. Nel caso del solfato di rame, nel Settecento chiamato vetriolo di cipri (vitrioli di cipri) era utilizzato come collirio per curare gli occhi. Però opportunamente nella scheda ad esso dedicato Bruno Ferrarotti specifica: ora trova impiego soltanto come parassitario in agricoltura.
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