di Gianfranco Quaglia
Com’erano la pianura piemontese e il mondo agricolo tra Vercelli e Novara quattro-cinque secoli fa? Ce lo racconta Carlo Bascapè, barnabita, biografo e segretario di San Carlo Borromeo, che poi divenne vescovo della grande diocesi di Novara. Nel quarto centenario della morte (1615) è stato rieditato il libro da lui scritto, «Novaria», che a distanza di tempo rappresenta una testimonianza diretta delle condizioni di vita e lavoro dell’epoca.
L’attuale vescovo di Novara, Franco Giulio Brambilla, vicepresidente della Cei, ha voluto celebrarlo con una lectio magistralis che iconizza alcuni passaggi di quell’opera scritta dal suo lontano predecessore, il quale fotografò una dimensione rurale e socio-economica che rappresenta anche una sorta di geografia antropologica. Scriveva il Bascapè che il «territorio si presenta con la forma di un albero, il cui tronco è costituito dalla pianura e i rami dalle catene montuose e dalle valli». Erano gli anni in cui la coltura del riso soppiantava quella del grano, ma osservava il vescovo che «oggi queste terre sono redditizie per i proprietari…L’acqua, infatti, dedotta dalla Sesia attraverso numerose derivazioni, stagnando nei prati e nelle risaie infetta dappertutto l‘aria, tanto che molti ne muoiono, anche in tenera età, con gran danno per le coltivazioni, e così in numerosi villaggi non si ritrovano più famiglie antiche né contadini in età avanzata». E concludeva: «Così a questa coltura legata all’irrigazione della terra, dannosa non solo ai corpi, ma anche alle anime è necessario porre un freno». La denuncia del Bascapè spinse le autorità a stabilire una distanza di sicurezza dei campi di riso dall’abitato dei paesi. Per la prima volta gli abitanti si trovavano a subire gli effetti della «malaria», così chiamata perché si pensava che il morbo si propagasse per via aerea, non si sapeva ancora che fosse procurata dalle punture dell’anofele, veicolo della malattia. Ma la buona fede del vescovo era tutta indirizzata a contenere in qualche modo gli effetti di quella piaga.
In quel libro Bascapè non parlava soltanto di condizioni di vita legate all’agricoltura, ma anche di riassetto della diocesi. Tuttavia, a distanza di 4 secoli, quell’indagine conoscitiva del presule venuto da Milano ci serve per capire quanti passi sono stati compiuti nell’agro risicolo piemontese: un balzo enorme, che ha affrancato il territorio dalle pestilenze e prodotto un habitat vivibile e necessario all’ecosistema.
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