di Paolo Villa
Il 5 aprile, dando contenuto giuridico-operativo a una norma approvata dal Parlamento nel 2017, pasta e riso di origine in Italia e nell’UE non hanno più scampo: le loro confezioni devono recare con precisione la provenienza dell’area nonché dell’impianto di produzione e lavorazione. Ai contravventori saranno comminate multe da 2 mila a 15 mila Euro. Gli specialisti della svolta commerciale che riguarda i generi agroalimentari, come appunto la pasta e il riso, annotano: l’ABC delle etichette dal 5 aprile è prima di tutto una questione della salute del consumatore il quale deve essere messo in condizione di sapere da dove viene il proprio cibo. Nel caso della pasta, prodotta con metodi cambiati nel tempo dall’Ottocento ad oggi, consumata in quantitativi pro-capite di circa 24 chilogrammi, è giusto che si sappia da dove arriva il grano adoperato. Prima il cereale italiano e comunitario, dopo quello che giunge dagli Stati Uniti e dal Canada. Lo stesso vale per il riso, penalizzato a causa dell’Unione Europea che trascura l’applicazione dei dazi doganali, da tempo sottoposto ad un robusto pressing attuato dall’Asia. Come per la pasta, forse anche per il riso un chilogrammo su tre ha una provenienza fuori dall’Italia e dai paesi risicoli comunitari.
L’obbligo dallo scorso 5 aprile è un successo della Coltivatori Diretti. L’organizzazione agricola ha insistito da tempo per le nuove norme, anche accusate ingiustamente di difesa autarchica propria di altre epoche storiche, in realtà con due finalità preminenti: la tutela economica delle nostre produzioni, troppo insidiate dalla globalizzazione; e la difesa del consumatore. Recentemente in un sondaggio la Nielsen ha accertato che il 30% degli acquirenti legge ormai attentamente le etichette di agroalimentari, e sempre di più scarta i generi i quali non spieghino chiaramente che i contenuti di una confezione (convegno del 2012) non tengano conto della celiachia e contengano allergeni, edulcoranti, insaporenti, coloranti, conservanti, aromi. L’attenzione crescente, che sempre più è collocata nelle parti centrali ben visibili delle etichette, riguarda ormai l’84% dei consumatori per l’origine degli alimenti che diventato il 96% per alcuni generi. Le statistiche comprovano che taluni atteggiamenti sono relativi a tutto l’Occidente. Una Università di New York si è soffermata sulle abitudini di malasanità dei giovani da due anni a 16/17 anni, e il risultato della specifica ricerca è stata autorevolmente ripresa dalla rivista Pediatric.
Il 76% di consumatori, infatti, che non leggono le etichette si nutrono di cibo inadatto, alla base della obesità dilagante riguardante l’Occidente su cui si sono soffermati quasi tutti i dicasteri della Sanità, Italia compresa. Anche una major (multinazionale) americana sta considerando l’aspetto del cibo schifezza non evidenziato dalle etichette, cosi che ha anche revocato la sua sponsorizzazione alle recenti olimpiadi. Nel mondo intero, svariate pubblicazioni medico-scientifiche insistono sulla pericolosità economica e per la salute di etichette con ragguagli incompleti, quindi che non indirizzino compiutamente il consumatore al quale si richiederebbe una diversa cultura per gli acquisti. In Italia l’Università di Pollenzo ha una cattedra retta da Michele Fino, docente di materie giuridiche che in Europa comunitaria giustificano l’importanza delle etichette e dei suoi contenuti. Il professor Fino è anche autore del manuale Una questione di etichette. Un apporto robusto di informazioni e di nozioni è poi venuto dal Movimento Consumatori che ha licenziato la pubblicazione La guida per una sana alimentazione, mentre altre pubblicazioni affrontano il necessario atteggiamento critico nei confronti delle etichette, atteggiamento che in realtà il ministero delle Politiche Agricole e altre istituzioni insistentemente chiedono ad un consumatore attento all’economia, al cibo falso e alla sua salute.
Per rendersi conto della importanza di etichette chiare e che informano veramente, è forse il caso di soffermarsi sulla storia delle etichette che negli anni scorsi hanno anche ampiamente chiesto aiuto alla creatività e all’arte. Da un punto di vista alimentare la storia del più recente codice a sbarre e delle etichette si dipanò a livello comunitario alla fine del 1900 con i primi decreti ai quali si uniformarono tutti i paesi dell’Unione, Inghilterra compresa la quale ha introdotto l’etichetta a semaforo sui grassi e gli zuccheri. Un impulso incontenibile venne da due rami merceologici: la viticoltura per riassumere con regole precise quanto i diversi terreni danno in vino; e la discografia, che fin dal 1885 conferì una grande importanza alle etichette dall’anno del brevetto del disco musicale ottenuto negli USA da Emile Berliner (1851/1929). Per l’etichetta da vino che una ventina di artisti europei idearono descrivendo graficamente e pittoricamente il terreno da vite, bisognerà attendere fino al 1945. Settantatre anni fa, infatti, fu ideata l’etichetta per il Bordeaux Grand Cru. Poi negli anni Cinquanta, Sessanta, Settanta vennero le visioni da bottiglia di George Braque(1955), Salvator Dali (1958), Pablo Picasso (1973) Francis Bacon (1990), gli artisti futuristi fra cui Fortunato Depero(1892/1960), oppure per il Barolo Giacomo Balla, Giorgio Morandi, Pier Paolo Pasolini. Adesso, per ritornare all’agroalimentare, tocca all’ortofrutta e alla carne trasformata come insiste Roberto Moncalvo, presidente di Coldiretti. Per difendere il made in Italy – dice Moncalvo – fare della qualità e della tracciabilità del prodotto la propria missione aziendale
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