L’Inea, Istituto Nazionale di Economia, chissà perché ha raggruppato le associazioni dei cerealicoltori- quindi anche dei risicoltori – nel vasto “settore statistico” cerealicolo del riso e delle oleaginose. Senza manifestare esplicitamente la volontà di correggere la genericità, subito dopo ha precisato: con sole 10 0P ( nel gergo burocratico ministeriale, le organizzazioni di produttori) dieci associazioni con oltre 24 mila soci e un valore di mercato di circa 200 milioni di euro rappresentano un pilastro portante della nuova politica agricola che entrerà in vigore fra breve, nel 2015. Fra questi “pilastri”, dagli economisti del comparto giudicati pochi in rapporto alle reali necessità ipotizzate dalla Pac negli anni 2015/2020, vanno inserite le associazioni fra i risicoltori fondate per l’ammasso volontario collettivo del cereale e per la vendita, altrettanto collettiva, del prodotto per spuntare prezzi più accettabili, specie in periodi non soddisfacenti come quello attuale. Questi organismi associativi, “anello” importante della filiera del comparto, operano da qualche anno nelle province di Vercelli, Novara, Pavia, Verona, anche Oristano.
Ma il nucleo di sostegno di questo tessuto organizzativo, da ampliare e rinforzare nel prossimo quinquennio, è formato soprattutto da produttori di grano e da parte delle industrie di trasformazione. Il comparto caseario e quello ortofrutticolo vanno considerati a parte. I dati statistici comunque confermano l’importanza di questa “via lattea settoriale” nella quale l’industria di trasformazione conta molto. Infatti nel nostro Paese, dove per coprire il fabbisogno importiamo annualmente dal 30/40% di grano specialmente dal Canada, l’industria molitoria ha davvero una importanza rilevante. Secondo una recente inchiesta de L’informatore Agrario, in Italia gli impianti di trasformazione sono 178, con una capacità annua di lavorazione di 6.800.000 tonnellate, ripartite per la trasformazione reale in 5.190.000 tonnellate di frumento duro e in 3.520.000 tonnellate di semola.
Da anni il Gruppo Barilla di Parma ha colto il senso dell’alleanza stretta fra produttori e industria, due segmenti fondamentali dellafiliera, e anche per il suo sviluppo sta dando un contributo rilevante, come evidenziano le cronache economiche. La Barilla è ormai presente in tutte le iniziative importanti di filiera, ampliando così la sua presenza ( e le sue indicazioni tecnico-agronomiche) in comparti diversi dal cerealicolo che puntano, inoltre, alla agricoltura sostenibile, come nel caso dell’alleanza stretta fra il Gruppo di Parma e il Consorzio Casalasco del pomodoro. Questo ultimo organizza circa 300 aziende nelle province di Parma, Piacenza, Cremona e Mantova con una coltivazione complessiva di pomodoro su 4.500 ettari e una produzione di 350.000 tonnellate. Nel caso specifico, diventato da manuale, la filiera con la collaborazione industriale riguarda gli anelli dal seme al prodotto finito. Non solo. Stando al progetto Sostainable Farming caldeggiatodalla Barilla, prossimamente dovrebbero essere coinvolti, al di là del grano,i comparti della rotazione agronomica da grano ad altre essenze, della barbabietola da zucchero, della colza e del girasole. Sarà interessante vedere, alla fine, che cosa succederà con l’ampliamento auspicato dalla Pac per la risicoltura, soprattutto concentrata nella Pianura Padana.
In Piemonte, principalmente nel Cuneese che nel tempo ha fatto esperienze assai positive sulla alleanza agricoltura-industria nell’ambito delle filiere di prodotto e dei contratti relativi, ultimamente non sono mancate le perplessità. Per il timore che, alla fine, si imponga lo strapotere dell’industria di trasformazione, una recente nota ufficiale di Coldiretti ha assunto una posizione netta. “Attenzione – è l’esortazione – bene alle filiere di prodotto, ma che non si trasformino in una cambiale in bianco a vantaggio dell’industria”. Mancando l’ armonia tra gli “anelli” della filiera, le motivazioni che giustificherebbero le richiamate perplessità sono numerose. A parte l’attuazione della Pac, nel 2015 l’agroalimentare italiano verso Germania, Francia, Spagna, Stati Uniti, Turchia potrebbe aumentare di un altro 12%. Sarà però importante che la spinta venga da un numero ancora maggiore di organizzazioni dei produttori e di filiere agroalimentari davvero equilibrate secondo il modello ben descritto da Herbert Lavorato, in Europa uno dei più competenti nella materia, fatta di aspetti organizzativi dipendenti dalla volontà dei costitutori e contrattuali molto trasparenti, senza prevaricazioni dell’industria sull’agricoltura.
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