di Enrico Villa
A Mosso Santa Maria, terra della pecora di razza biellese la cui lana nell’Ottocento fece la fortuna del’industria tessile, la Tipografia Tonso ha a suo tempo affrontato la ristampa del libro sulla lingua dei pastori, anche detta “lingua dei gai”. Questo il titolo che nel 1921 aveva dato Giuseppe Facchinetti, un pastore bergamasco anche diventato un importante imprenditore appassionato di letteratura e di idiomi territoriali: Slacadùra di Tacolér, appunto lingua dei pastori. La ristampa, cioè “batidura”, si ritrova puntualmente negli archivi delle associazioni allevatori piemontesi e lombarde e delle biblioteche, ripresa a riferimento degli appassionati che hanno riscoperto i ritmi della pastorizia e dell’allevamento delle pecore e della capre. In quattrocento parole, adesso quasi del tutto incomprensibili, è la sintesi di un mondo dalle caratteristiche molto marcate.
I frequentatori del web e della rete, che ultimamente sulla pastorizia della cerchia delle Alpi hanno scritto molto, ugualmente scattando migliaia di fotografie, hanno ripreso diffusamente questa locuzione: “industria della pastorizia”. Di industria della attività agricola, allora in pieno svolgimento tecnologico, a metà dell’ Ottocento parlava Camillo Cavour appena incaricato del dicastero dell’industria del commercio con la sua importante appendice dell’attività agricola, qualche anno dopo così ben descritta dalla Inchiesta Agraria di Stefano Jacini. E in controtendenza rispetto al “popolo del web”, nell’ottobre del 2011 Mario Bonfanti, giovane regista di 34 anni per girare il lungometraggio “L’ultimo pastore” riempì con un gregge di 700 pecore e capre accudite dal protagonista del film Renato Zucchelli, piazza del Duomo a Milano. Ermanno Olmi, regista-poeta della civiltà contadina italiana, giudica assai positivamente “L’ultimo pastore” di Bonfanti, anche diventato un riferimento preciso in rassegne cinematografiche europee e del nostro Paese.
Ma da un punto di vista dell’economia agro-industriale italiana, sia il “vocabolario di Giuseppe Facchinetti che il lungometraggio di Mario Bonfanti sono importanti per un altro risvolto. Essi nel periodo 1921-2011 cadenzano 90 anni della storia della pastorizia del nostro Paese nonché con involuzioni e riprese da un punto di vista aziendale con i formaggi e forse la lana la rivalutazione alimentare e delle materie prime di base. Il pastore rude e romantico del passato, che chiamava il riso “gramoli”, o la luna “lampiusa”, o l’asino “bertol” e via elencando non esiste più. Esistono invece giovani pastori e pastore con i cellulari o gli smartphone con percorso misto: verso gli alpeggi con autotreni e, in autunno, ritorno al piano a piedi. Però le case viaggianti costituite dal carrettone detto “rodelér” sono state sostituite dai fuori strada e dalle roulottes, tuttavia con il rispetto della tradizione per quanto riguarda l’asino e i cani, essenziali dopo il ripopolamento di lupi, orsi, altri animali rapaci delle nostre montagne. Nel solo Piemonte, dove aree importanti per la pastorizia sono il Cuneese, il Biellese, l’Ossolano, la Valsesia i capi sono circa 174.000 ripartiti nelle seguenti razze soggette a selezione migliorativa: Biellese, delle Langhe, Frabosana, Rosaschina, Sambucana, Savoiana, Tacona ecc.
Tre anni fa l’amministrazione regionale piemontese ha avviato il progetto Popast con l’auspicio della sua riproposizione anche in relazione al ritorno alla terra del maggior numero dei giovani. Attenzione per la nuova pastorizia anche in Lombardia con la Bergamasca, area portante per la specializzazione. La Scuola Agraria del Parco di Monza ha avviato corsi tecnici per l’alpeggio, e anche in Lombardia e in Piemonte si sta sempre più prospettando un corso superiore agrario per la pastorizia come altrove in Europa Comunitaria. “Occorre investire in istruzione e in formazione”, ha detto Federica Guidi ministro per lo Sviluppo Economico. Ovviamente anche per i pastori del XXI secolo.
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