Giallo nel cuore dei campi. E’ incominciato nel Veronese quattro anni e l’actinidia chinensis si è rinsecchita ed è morta. Poi, in questo 2016 infausto il giallo si è ripresentato prima nel Cuneese e poi nel Borgodalese, terra dell’actinidia accanto alle terre da riso. I coltivatori, i cui bilanci aziendali si basano in gran parte sul kiwi, frutto dell’actinidia, a ragione si sono spaventati. La stampa locale ha gridato al disastro e ha richiesto l’intervento della Regione Piemonte, competente per norme, vigilanza fitopatologica e, anche per le ripercussioni economiche in collaborazione con le camere di commercio. E, per la verità, il servizio regionale di fitopatologia si è messo al lavoro. Uno studio accurato è anche stato fatto dalla Fondazione Agrion, costituita anni fa dalla Regione Piemonte. E l’Agrion, in collaborazione con Coldiretti di Cuneo, ha anche dato consigli: poca acqua nelle coltivazioni del kiwi, possibilmente a pioggia. Infatti, con l’irrigazione a pioggia le radici dell’actinidia, robusto rampicante che si coltiva con lo stesso assetto della vite, le sue radici, attaccate forse da un nematode e che si trovano magnificamente dove c’è tanta acqua, si rinsecchiscono. E la pianta, lentamente ma inesorabilmente, deperisce fino alla morte. I kiwi, un tempo chiamati dalla stampa fantasiosa topi vegetali, rimangono senza vita sui tralci. Il danno è pesante. Il frutto, miniera di acido ascorbico (vitamina C) e gradito alla moderna dietetica, non tiene più il mercato. O nei casi più fortunati si affaccia sui mercati ortofrutticoli del tutto senza valore. Il disastroso verme microscopico dai biologi chiamato nematode, che si annida nel terreno e dorme indisturbato anche per due/tre anni, ha lasciato effetti disastrosi.
Nella primavera del 2016, l’allarme si è propagato dalle coltivazioni di actinidia chinensis alla vicina risaia. Forse è solo un caso. Ma da non sottovalutare. L’infezione da nematode galligeno (che provoca galle sulla pianta) è stata rilevata in una risaia della Baraggia Vercellese e Biellese. Il servizio fitosanitario della Regione Piemonte più quello dell’Ente Nazionale Risi, si sono messi al lavoro prima di tutto per prevenire l’infezione. Ed è stato accertato che la malattia è stata provocata dal malefico vermicello divoratore delle radici della pianticina. Ma come negli ultimi anni frequentemente accade, non si è ancora stabilito da dove il nematode galligeno proviene. Dalle macchine e dai prodotti impiegati? O dall’acqua importantissima per la risaia che scorre su un piano inclinato, traendo la sua funzione e la sua energia dal Po, dalla Dora, dalla Sesia? Nell’ultimo decennio batteri, funghi, insetti malefici che sono combattuti in generale con i fitofarmaci, hanno più di un tempo campo libero nelle coltivazioni.
Questo è vero per i nematodi, come hanno dimostrato gli studi e le ricerche, tutte pubblicate da istituzioni statali. Uno studio, che si aggiunge anche a quelli del Servizio Fitosanitario della Regione Piemonte e dell’Ente Risi, avverte: nel caso di produzione di piantine direttamente su terreno sabbioso, effettuare una rotazione di almeno 4 anni con piante non ospiti, con un eventuale inserimento di colture intercalari di Bassicacee biocide da sovescio. O un’altra ricerca che, con tabelle, documenta il dilagare del verme nematode: barbabietola, cavolo, colza, pomodoro, rapa, ravanello, ravizzone, senape, spinacio. Ad essi si aggiungono altri ortaggi ma, per adesso, fra di essi, non compare colpita l’actinidia chinensis. Però, dopo l’allarme nel Veronese, nel Cuneese e a Borgodale, nonché per il riso in un’areale della Baraggia, una prima risposta potrebbe venire sulle origini del vermicello trasmigrato, chissà da dove, da tenere comunque sotto controllo.
La difesa dell’actinidia e del blocco della sua malattia indotta non riguarda soltanto l’Europa ma anche altre aree di coltivazione: Nuova Zelanda, regioni degli Usa, America Centrale. Come è più volte accaduto (anche per il riso) nel 1897 l’actinidia che cresce in Cina nei pressi del fiume azzurro, fu portato in Europa da un missionario. Nel 1904 la pianta prese la via della Nuova Zelanda dove divenne una rigogliosa coltivazione, economicamente assai importante. La selezione delle varietà più importanti (in particolare, la varietà Hayward) incominciò nel 1920, ed ecco fra gli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento le coltivazioni di actinidia (il frutto prende il nome dal Kiwi, minuscolo volatile neozelandese) si diffondono negli Usa e in Italia sul Lago Maggiore, in Veneto, Romagna, Friuli, Piemonte, Lazio, Marche. Molto interessati all’import sono i paesi dell’Est Europa dove il Kiwi è entrato nelle tradizioni alimentari con 700 grammi pro capite in Russia, o 500 grammi in Ucraina. In Italia, anche in omaggio al suo potere diuretico e carico di vitamina C, il suo consumo annuo pro capite si è attestato su 2,60 chilogrammi (2,80 in Europa). Senza il guaio della moria di actinidia chinensis, forse attribuita alla troppa acqua o anche ad un nematode non ancora individuato, la sua coltivazione è un affare. Le regioni dove è rigoglioso non si possono permettere davvero questo “giallo vegetale”.
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