di Gianfranco Quaglia
Ristorante nel centro di Torino, li cliente salda regolarmente il conto, ripone la ricevuta in tasca e si avvia alla porta. Ma il cameriere lo rincorre trafelato: «Scusi, signore, vuole portarsi via la bottiglietta di minerale che ha lasciato a metà? in fondo l’ha pagata per intera». Il cliente guarda trasecolato, ringrazia e accetta. Sorpresa? Non troppo. Proprio in Piemonte, nel 2000 era nata l’iniziativa «Buta stupa»: un’idea contro lo spreco per consentire a tutti gli avventori di uscire dal ristorante con la bottiglia di vino in parte piena.
E’ la filosofia del «Doggy bag» (da non interpretare come cibo per cani) che si sta diffondendo ai tempi della crisi economica: portare a casa gli avanzi del piatto dal ristorante. Secondo un’indagine Coldiretti in questa estate avara di tutto il 33 per cento degli italiani l’avrebbe sperimentata, molti altri non l’hanno fatto solo perché si vergognano. Ma questi ultimi non sanno che nella lista dei virtuosi di questa tendenza ci sono nomi blasonati, come Michelle Obama che nel 2009, in occasione del G8, in un ristorante di Roma si fece impacchettare i resti di una matriciana per portarli in albergo.
La crisi disegna paradossi incredibili: c’è chi rovista nei bidoni alla ricerca di cibo e chi spreca. Si calcola che ogni famiglia butti nei cassonetti circa 78 chili di cibo l’anno non consumato, il che tradotto in soldi significa circa 7,8 miliardi di euro.
Intanto diminuisce la spesa per i generi alimentari: un -5 per cento per latte e formaggi, un -3 per frutta e verdura nei piccoli negozi. Si salva soltanto la grande distribuzione.
In questo scenario il «doggy bag» diventa quasi una necessità, un inno al consumo consapevole. E non c’è da stupire se recentemente sia finito anche in tribunale, anzi in Corte d’Appello. E’ accaduto nel Trentino dove un cliente ha insultato il ristoratore perché avbrebbe rifiutato di impacchettargli gli avanzi. La vicenda si è trasferita nelle aule di giustizia e alla fine i giudici hanno dato ragione all’avventore.
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