Anni Sessanta. Quando Eusebio Francese e la moglie Bianca arrivano da Bianzè (nel Vercellese) e scorgono quel casolare sperduto fra le risaie di Gionzana, nell’aperta campagna di Novara, senza parlarsi capiscono che quel luogo sarà l’inizio di una lunga e straordinaria avventura, la terra promessa che cercavano. Eppure quel cascinale, la Canta, per tanto tempo è rimasto un luogo quasi famigerato, da evitare. Il passato non depone a favore: più tardi i due giovani agricoltori scopriranno che qui la storia del brigantaggio di fine Ottocento e inizio 900 ha avuto un capitolo importante, tanto che chiunque abbia avuto il coraggio o commesso lo sproposito di abitare alla Canta, è stato ribattezzato come “Mandian d’la Canta” (brigante della Canta). Oggi, a 92 anni compiuti, Eusebio che porta il nome del patrono di Vercelli e del famoso calciatore lusitano, sorride di quel nikname, anzi ne racconta le origini. Qui era di casa un famoso bandito, quel Francesco Demichelis detto “Il Biondin” che agli inizi del ‘900 imperversava nella pianura, in bilico tra scorribande, assalti, ferimenti, omicidi ed episodi che gli valsero anche la fama di rubacuori. Un Passator Cortese del Piemonte che divise la sua leggenda con un altro compagno, “Il Moretto”, sino al giorno in cui – era in primavera – i carabinieri lo scovarono sull’aia di un cascinale del Vercellese, dove stava volteggiando in una mazurka con una mondariso perduta negli occhi azzurri del Biondino. Inseguito e braccato, fu finito a colpi di fucile su un argine della risaia.
Ma non era solo. I suoi amici complici di vita vagabonda e ai limiti della legalità si rifugiarono nel Novarese, alla “Canta”, uno dei tanti nascondigli del Biondino che più di una volta sceglieva proprio questo cascinale appartato per rifocillarsi prima di riprendere il cammino. La storia di quella banda nonno Eusebio l’ha voluta imparare tutta, anche nei particolari, e oggi indica a chi arriva in cascina il luogo, la porta attraverso la quale il 29 novembre 1905 i carabinieri di Novara, la “Giuana” come chiamavano allora i militari dell’Arma, fecero irruzione in quello stanzino: ci fu un conflitto a fuoco, tre briganti caddero riversi sul pavimento, un carabiniere rimase ferito. Altri complici cercarono scampo attraverso i campi, ma fu una corsa breve: braccati, dovettero arrendersi e così fu messa fine alla leggenda del Biondino e della sua banda.
A pesare sulla Canta non c’era soltanto questa vicenda, ma anche il racconto di spiriti e fantasmi che aleggiavano nelle sere di nebbia. Eusebio e Bianca però guardarono oltre e forse anche animati dal desiderio di sfidare quel passato e le dicerie, si rimboccarono le maniche. C’era molto, tutto da rifare per rimettere in piedi un’azienda e scommettere sul futuro. Nei lavori di ristrutturazione scoprirono sul muro della casa i resti di una meridiana, risalente al 1700. Si rivolsero a un restauratore e oggi quell’opera, oltre a essere funzionante, è diventato anche il simbolo e il logo dell’azienda.
Sono anni che demarcano il passaggio dai metodi di coltivazione tradizionali a quelli tecnologici, segnati dall’avvento massiccio della chimica che stravolge anche l’habitat. Eusebio va controcorrente, nel senso che non abbraccia per nulla i diserbanti, i fitofarmaci, gli antiparassitari. Al contrario, con ostinazione e caparbietà si affida alla naturalità, antesignano di quell’agricoltura ecosostenibile che soltanto parecchi anni più tardi assurge a simbolo anche a livello europeo e mondiale, punto di riferimento anche dell’Onu. Non è semplice, costa fatica, schiena abbassata sul riso che cresce e le infestanti da estirpare. Ma la famiglia Francese (lui, la moglie Bianca, le figlie Isabella e Maddalena) credono fermamente in ciò che fanno e l’azienda Canta nel giro di breve diventa un’isola biologica nel mare della risaia novarese-vercellese. Eusebio viene visto anche con sospetto e scetticismo dagli agricoltori della zona, ma lui non si ferma davanti agli scuotimenti di testa. Anzi, vuole dimostrare che un certo tipo di risicoltura, su appezzamenti di medie dimensioni, è possibile. Non solo guardando al passato, ma con la capacità di innovare introducendo alternative. Sa guardare oltre il cortile della Canta, anzi al di là dei confini e punta decisamente lontano, a quell’Oriente dove il riso è il primo alimento: la Cina. Ebbene, dalla terra del Dragone importa le carpe Amur, dal nome del fiume, pesce erbivoro, le immette nella sua risaia. Più tardi si affida anche alla tilapia, il pesce più consumato al mondo, anche questo con proprietà fitofaghe, particolarmente adatta a combattere le alghe che soffocano lo sviluppo delle pianticelle di riso. Insomma entrambi diventano abili alleati nella lotta alle infestanti e sgravano un po’ dalla fatica la famiglia francese e le ultime mondine reperite in zona. Poi la lavorazione in proprio del prodotto raccolto, attraverso la realizzazione di una piccola riseria aziendale, basata anch’essa sul rispetto delle antiche tradizioni, come le macine a pietra, per la produzione di farine integrali e un laboratorio per la realizzazione della pasta. In un secondo tempo Eusebio si affida anche a una macchina arrivata direttamente dalla Cina.
I risultati di tutto questo non si fanno attendere e si traducono in un rapporto diretto e immediato che Eusebio e la sua squadra familiare instaurano con l’esterno. Anticipatore di “Open day”, invita i consumatori a visitare direttamente l’azienda e i campi, per rendersi conto di dove nasce e come cresce il prodotto che trovano nello spaccio aziendale: dal Carnaroli classico al riso rosso Sant’Eusebio, un’altra delle peculiarità, al Vialone Nano, Senza escludere il Maratelli, l’antico riso che alla Canta non è mai stato abbandonato, tanto che nel 2013 è stata iscritta nel registro delle varietà storiche, e l’azienda Francese diventa conservatrice del seme con decreto ministeriale. Dal Maratelli, l’ultracentenario che arriva da Mario Maratelli di Asigliano, Eusebio ricava anche il caffè facendo macinare i chicchi da un tostatore di Bastia Umbra. Della conservazione in purezza di questo riso pregiato, Eusebio parla con orgoglio pe sottolineare l’osservanza scrupolosa del disciplinare: sgranare 400 pannocchie prima della semina, scavare nel terreno 400 piccoli solchi, mettere a dimora i semi. Poi controllare che la crescita sia uniforme, eliminare le file che risultano anomale. Al momento della spigatura occorre continuare ancora la selezione, è sufficiente che una sola pannocchia sia anomala rispetto alle altre per scartare tutta la fila. Infine, al momento della raccolta, si scelgono 800 pannocchie, perché Eusebio è prudente e lungimirante, vuole preservare ogni anno una riserva.
C’è in lui una febbre quasi spasmodica di sperimentare, innovare ma al tempo stesso dimostrare a se stesso e agli altri che si può convivere con il passato guardando al futuro: nei suoi campi non solo riso, ma anche grani antichi. Prima il Kamut, l’Aquileia, l’orzo rondo, poi il Saragolla, un altro grano che risale a 5 mila anni fa, coltivato in Irpinia e Basilicata. Da un “matrimonio” fra il grano Saragolla e un’azienda vitivinicola, Fontechiara di Santa Cristina Borgomanero (Novara), nasce l’idea della pasta al Nebbiolo.
Un altro prodotto che andrà a rinforzare la già vasta gamma della linea naturale proposta nel negozio che alcuni anni fa, prima della scomparsa della moglie, aprì con lei alla Crocetta di Torino, nel quartiere in del capoluogo subalpino. Quell’idea fu e continua a essere un successo: l’uomo venuto dalla campagna e approdato nella grande città rappresenta il legame stretto fra il mondo rurale e il consumatore di città in cerca di gusti, sapori naturali e bio, in una parola un ritorno alle origini. Nonno Eusebio, ha saputo trasmettere anche cuore e amore per la terra. Da mercoledì al sabato, l’appuntamento si rinnova: Eusebio lascia la cascina del “Mandian” e da solo, in auto, percorre la A4 sino a Torino.
“Ma la domenica all’alba – dice Eusebio – mi fiondo di nuovo in autostrada e torno in cascina, per dare una mano in azienda e soprattutto per ritrovarci tutti attorno alla tavolata per il giorno di festa, con il risotto che non deve mai mancare. Con le figlie, generi, nipoti e tutti gli altri parenti, siamo una decina. Non è poca cosa aver conservato questa bella abitudine”. L’avventura continua.
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