di Franco Filipetto
Ottantotto anni e lo spirito e la grinta di un ragazzino, cinquanta anni di giornalismo con un premio che lo aspetta. Lui è Ettore Mo, che ironicamente afferma: “E’ un numero palindromo 88, ma si legge sempre così anche se lo ribalti con le gambe all’aria”.
Il buonumore non gli manca. Se la carta d’identità non lo frenasse sarebbe pronto a partire di nuovo per l’Afghanistan o un qualsiasi luogo ove infuriano le guerre. Sino ad un paio di anni fa aveva ancora la sua scrivania e il suo ufficio in via Solferino a Milano, sede del Corriere della Sera dove ha lavorato per oltre mezzo secolo.
Pratico di guerre, dove si è anche travestito di volta in volta, secondo le necessità, per carpire le informazioni da scrivere, come affronta e come giudica questa “guerra” contro il coronavirus?
“La guerra vera l’ho vissuta da ragazzino, avevo 10-13 anni, poi quelle da corrispondente nelle varie nazioni. Questa è insolita. Si combatte contro un nemico invisibile che non sapevamo che si era già infiltrato due settimane prima di scoprirlo. Ci ha colti alle spalle, di sorpresa. Ora la Sanità mondiale si è organizzata, sul campo però sono rimaste molte vittime, le più indifese”.
I giornalisti come stanno trattando il tema?
“Hanno fatto i cronisti, fotografato la situazione. Purtroppo spesso con numeri contenuti rispetto a quella che è la realtà. Vuoi per un metodo che dall’alto non si vuole spaventare la popolazione, vuoi perché, da quello che ho appreso, molti sono morti ancor prima di fare il tampone”.
La sua storia
Nel 1962, trentenne, si presenta al corrispondente da Londra del Corriere della Sera, Piero Ottone, per ottenere un posto come giornalista e comincia a collaborare dalla sede londinese. Racconta: “Avevo girato il mondo sulle navi negli anni precedenti come sguattero e cameriere a Parigi e Stoccolma, barista nelle Isole della Manica; poi bibliotecario ad Amburgo, insegnante di francese, senza diplomi, a Madrid; infermiere in un ospedale per incurabili a Londra e infine steward in prima classe su una nave della marina mercantile britannica”.
Tornato in Italia lavora prima a Roma e poi a Milano, dove si occupa di musica e teatro, fino al 1979, quando ottiene il primo incarico come inviato speciale. Il direttore del Corriere, Franco di Bella, padre di Antonio, direttore di TG24, lo manda in Iran a Teheran dove era appena tornato dall’esilio ed aveva preso il potere l’Ayatollah Komeini. Sempre nello stesso anno compie il primo viaggio in Afghanistan, paese per il quale nutre un amore particolare e di cui diventa uno dei massimi conoscitori al mondo. Ritornerà svariate volte a Kabul, entrandovi da clandestino e travestito da mujaheddin, percorrendo le sue montagne con ogni mezzo. Ha incontrato ed intervistato più volte Ahamd Shah Massoud, il Leone del Panshir, il primo incontro risale al 1981.”Per me era un amico. Lo uccisero due giorni prima dell’attacco alle Twin Towers. I suoi amici mi raccontarono che la sera prima di morire aveva parlato loro di Dante e Hugo. Era intelligente. Aveva insegnato loro la guerra, ma anche la poesia>. Dal 1995 suo compagno di viaggio e di lavoro è Luigi Baldelli, fotografo. Si incontrarono a Sarajevo, durante la guerra di Bosnia. Diventerà il suo “angelo custode”. I suoi reportage raccontano i grandi che ha conosciuto: “Un anno andai da Madre Teresa di Calcutta per intervistarla, senza dirle chi ero. Dovetti fare una lunga anticamera. Le sue collaboratrici dissero:”Ecco, ce n’è qui un altro, questa volta dall’Italia”. Intendevano giornalista. Così, su ordine della Madre Superiora, mi spedirono a lavare i pavimenti e le pentole per una settimana. Se resistevo suor Maria Teresa si sarebbe concessa per l’intervista. Molti rinunciarono dopo pochi giorni, io non mi arresi. Le portai una scatola di cioccolatini. Con quei suoi occhi penetranti mi guardò le mani, e accettò di rispondere alle mie domande”.
Due giorni dopo uscirono due pagine sul Corriere e da Milano arrivarono i meritati complimenti. Ha rischiato due volte di morire, prima in un incidente d’auto nella guerra in Medio Oriente, poi per una delle ultime interviste e Massud: “Ero riuscito ad ottenere l’appuntamento con il Leone del Panshir, mi accompagnava un giovane giornalista afghano, al ritorno la nostra Jeep venne fermata da militari. Strapparono il giovane collega dalla vettura. “Che succede?” chiesi. “Mi uccidono” rispose il giornalista locale. Lo portarono dietro una collinetta e sentii i colpi di arma da fuoco. Pensai “Ora tocca a me”. Non lo fecero: sarebbe scoppiato un incidente diplomatico internazionale”. Con Mino Damato, allora corrispondente del TG1, vive una esperienza unica. Con la vendita del Rolex di Damato comprano un vecchio camioncino per muoversi, insieme, attorno alle montagne afghane. Da Milano non lo sentivano da una decina di giorni: “Pensavano fossi morto. Allora non c’era internet e nemmeno i cellulari, per trovare un telefono a volte bisognava fare anche cento chilometri, su quelle strade voleva dire una giornata. Ho telefonato gli articoli, ma dal direttore ho preso una lavata di capo che ricordo ancora oggi”.
Finita l’emergenza sanitaria l’Ordine dei Giornalisti del Piemonte gli consegnerà il premio per i cinquant’anni di attività. Il 1° aprile, giorno del compleanno, lo ha trascorso tra le telefonate di colleghi e amici, il taglio della torta e un calice di buon vino.Ettore Mo
Nelle foto: in alto Ettore Mo in alcune istantanee. Sotto: Ettore Mo con Ferruccio De Bortoli e Gianfranco Quaglia
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