di Enrico Villa
Poco più di un anno fa, il 26 luglio 2013, a Salice d’Ulzio e al Ristorante il Capricorno nasce l’Accademia dell’Alta Cucina di Montagna. Il manifesto: valorizzare, anche da un punto di vista sociologico, i cibi che per le dure condizioni dell’esistenza in montagna la tradizione ha elaborato e tramandato, per scelta riservando molto spazio alla semplicità e alla rusticità. E un anno dopo, fra le iniziative celebrative un richiamo alla tradizione e alla semplicità: il pane e le confetture, o le marmellate, delle nostre nonne. Ma con annotazioni di corollario anche scientificamente interessanti: 315 ricette di montagna raccolte dalla giornalista Francesca Negri in tutti i monti della Penisola; e la rassegna, a dir poco entusiasmante delle Confetture di Bianca Rosa, al secolo Bianca Rosa Zumaglini.
In queste settimane è poi in uscita la Guida Ristoranti dell’Espresso diretta dal vercellese/valsesiano Ezio Vizzari. In un compendio di presentazione ha evidenziato i cento migliori chef che in tanti angoli d’Italia terranno banco nei prossimi dodici mesi. Anche le ricette e le elaborazioni di questi maestri in numerosi casi richiamano ingredienti in via di riscoperta: le rape e le loro radici; la segale e il suo pane; l’orzo, il granturco e via elencando. Tutte materie prime, pilastri delle civiltà contadine e di montagna sempre più a rischio di dissoluzione.
Ma non è tutto. Il 9 luglio scorso all’assemblea Coldiretti di Roma sono state presentate le Bandiere del Gusto che senza l’agroalimentare nonché le civiltà contadine e di montagna non esisterebbero: 4813 prodotti segnalati nelle 21 regioni del nostro Paese i quali da 25 anni sono fondamenti delle nostre cucine dei territori. Anche il Piemonte è ben classificato con 341 “prodotti principe”, tuttavia primi nella graduatoria delle Bandiere del Gusto Toscana, Campania, Lazio, Veneto, Emilia Romagna. A proposito della montagna e della Valle dell’Aniene un piatto della transumanza dal nome quasi impronunciabile per chi non è del luogo: gli ‘ndremappi di Jenne, fatto di pasta povera con farina integrale, acqua e sale con sugo di olio, aglio, peperoncino, pomodoro e alici. Tutti sono ingredienti “a kilometro zero”; cioè dietro l’angolo di casa, meno soggetti di altri alle sofisticazioni e ai lunghi trasporti. Quindi, possibilmente da gustare in loco come sta sempre più sostenendo la “nuova filosofia agroalimentare” principalmente propugnata dalle associazioni agricole, Coldiretti in primis. E soffermandosi sul “Kilometro zero” e sulle cucine valligiane, che un tempo si trovavano nelle osterie di montagna anch’esse testimonianza di tradizioni antiche e affascinanti, è riproposta insistentemente anche la “gastronomia Walser” quintessenza del cibo e del nutrimento di montagna, in via appunto di riscoperta. Il Comune di Macugnaga, centro importante ai piedi del Monterosa e che si affaccia sul Lago Maggiore ha recuperato – e in parte riordinato – nel 1999 le ricette della cucina Walser, come è precisato dallo stessa municipalità. Gli ingredienti base sono quelli della civiltà di montagna, a loro volta assai importanti nella storia delle coltivazioni agrarie di alta quota: cipolle, segale, granturco, latte per i molti formaggi, tortelli farciti con polpa di mele, condimenti a base di olio di noci, anche burro, grassi, talvolta un po’ di salumi derivanti dall’allevamento di suini accanto a pecore e bovini.
Il popolo Walser, di etnia tedesca, dilagò dai Grigioni nelle Alpi Occidentali italiane, in Svizzera, Austria, in epoca medioevale per la forte crescita della loro popolazione e per i cambiamenti meteorologici. L‘aumento delle temperatura favorì l’emigrazione in terre di montagna ritenute più ospitali e allora produttive da un punto di vista agrario. Per accrescere il reddito di sopravvivenza, nel Settecento e nell’Ottocento gruppi di Walser da Alagna, Riva Valdobbia, Rimella sarebbero scesi soprattutto per il taglio del riso in pianura. E da qui – tramanderebbero i loro ricettari – anche la paniscia; cioè riso cotto con latte, o con brodo, e consumato con pane di grano o di segale. Anche la panissa vercellese o la paniscia novarese sarebbero, dunque, piatti di montagna storicamente a “kilometro zero”.
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