Fu il primo maestro di cucina italiano (e dell’Occidente) ammesso alla corte dell’imperatore Hirohito del Giappone, chiamato per insegnare i segreti della gastronomia e della buona tavola. Daniele Preda veniva da Ghemme (Novara), dove mantenne le radici: la sua gente, chef e tanti allievi, gli hanno tributato l’ultimo omaggio, pochi giorni fa, dopo la scomparsa.
Estroso e dissacrante, una professionalità acquisita e perfezionata all’Istituto alberghiero di Stresa, dove era stato docente. Aveva portato il bagaglio professionale in tutto il mondo, nei migliori ristoranti: dal Sudafrica a Cuba, in qualità di esperto del Ministero degli esteri per promuovere la cucina italiana. Ma sempre, fortemente legato alla terra d’origine, tanto da esportare caratteristiche e gioielli gastronomici locali. Fu il maestro di tanti giovani che oggi si fregiano delle stelle «Michelin», senza mai perdere la passione per il mestiere. Qualche anno fa l’uscita di un suo libro, «Mangiar di caccia», dedicato a segreti e ricette che si possono realizzare con la selvaggina.
Fautore della permacoltura, che in agricoltura mira all’impiego ecosostenibile della produzione senza stravolgere l’ecosistema, utilizzando tutto ciò che cresce naturalmente. Una identificazione con le potenzialità del territorio, come avvenne quella volta che arrivò a Tokyo. «In valigia – ci raccontò – avevo sacchetti di riso coltivato nel Novarese e con quel cereale mi proponevo di trasmettere qualcosa che ricordasse il Made in Italy».
Una storia di passione, fantasia e professionalità. Lo chef executive Daniele Preda da Ghemme arriva alla corte di Hirohito quando il mito dell’imperatore è al culmine, osannato dal popolo come un dio. I dignitari s’inchinano al passaggio. Preda, chiamato nella capitale nipponica per alcune consulenze dalla Nippon Floor Mills (proseguirà per 25 anni) riceve una telefonata in albergo da uno stretto collaboratore di Hirohito: «L’imperatore la vorrebbe a corte per preparare un pranzo ufficiale». Lo chef italiano va a palazzo e mentre attende di essere ricevuto, nei giardini incrocia l’imperatore: i due si guardano, Preda non s’inchina perché non lo riconosce. Ma Hirohito rimane colpito dalla figura e dall’atteggiamento di quell’italiano così pratico, che da lì a poco è già ai fornelli della grande cucina imperiale. Il menù: «Cucinai la ‘’paniscia’’, il classico risotto alla novarese, quella con la cotenna, il salame e i fagioli. Poi la servii all’imperatore e a tutti i commensali. Un successo».
Non era facile «sfondare» in una delle patrie riconosciute del riso, ma Preda aveva portato in Oriente il valore aggiunto, la conoscenza di un cereale superiore (come il Carnaroli), la tradizione e la capacità ai fornelli. E allora venne anche l’inchino: suo nei confronti di Hirohito, ma anche quello dello stesso imperatore che riconobbe la superiorità del maestro italiano. Erano trascorsi più di quarant’anni, il novarese raccontava questo episodio con un certo orgoglio, ma senza ostentazione. Era fiero di quell’incontro, ma predicava umiltà: «La raccomando soprattutto ai giovani che frequentano le scuole alberghiere – diceva – non si adontino se prendono calci, e non solo metaforici, dai docenti. Io ho imparato così».
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