Qualche anno fa in un negozio di parrucchiere del Rodigino un risicoltore della zona si presentò con un sacco di riso di dieci chilogrammi per pagare il taglio di capelli. Una provocazione per rimarcare che il prezzo del cereale pagato all’agricoltore non era neppure sufficiente a ricompensare il lavoro del barbiere. Ma c’è di peggio: per pagarsi un caffè al bar oggi un agricoltore, anche in Piemonte, dovrebbe vendere ben cinque chili di grano. Tutto ciò sottolinea la forbice che esiste tra il campo e la tavola, perché alla fine della lunga catena ad essere penalizzati sono due soggetti: produttore e consumatore, come dire gli anelli più deboli della filiera. Infatti un chilo di grano tenero è venduto a meno di 21 centesimi, soglia dalla quale sovente debordano persino i costi di produzione; mentre un chilo di pane è acquistato dai cittadini a valori variabili attorno a 3,1 euro, con un rincaro di quasi quindici volte. In alcuni casi, per pezzature superiori, si arriva sino a 4-5 euro. Insomma, un divario incolmabile. Coldiretti mette sotto accusa le speculazioni, ma anche le importazioni selvagge dall’estero con panini spacciati come italiani. Nella classifica del caro-pane l’Italia si colloca al settimo posto nell’Unione Europea: il prezzo più alto è in Danimarca, il più basso in Romania. Meno cari di noi sono Germania, Estonia, Portogallo, Slovacchia, Olanda, Lettonia, Lituania, Repubblica Ceca e Ungheria. Per questo è stato lanciato l’accordo di filiera Cap Nord Ovest per il frumento tenero Gran Piemonte in modo tale da arrivare a un prezzo d’acquisto equo.
La forbice dei prezzi riguarda anche altri prodotti. Basti pensare che per ogni euro di spesa per frutta e verdura soltanto 22 centesimi arrivano al produttore e il valore scende addirittura a 2 centesimi per salumi e formaggi.
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