di Enrico Villa
Il 28 marzo, con il sostegno della Regione e dell’assessore alla agricoltura Giorgio Ferrero, è stato presentato il capretto Piemonte qualità 100% carne regionale. Questo capretto viene portato ad un peso in 60 giorni fra 11 e 16 chilogrammi di carne leggera e gustosa come quella del pollo, secondo il parere dei nutrizionisti. Per il presidente degli allevatori Simone Grappiolo che si sono costituiti in Consorzio, la bontà della carne è confermata e deve esser ottenuta secondo un disciplinare preciso. Per ora hanno aderito al Consorzio del marchio al 100% Piemontese una ventina di allevatori che riguardano 10.000 capretti. Tuttavia in Piemonte agiscono 150 allevatori professionisti che si curano di 25.000 capre di produzione di capretti, latte, formaggio in percentuale minore di lana e di pellame.
Il marchio del capretto piemontese non è una novità. In Valle Vigezzo, anche conosciuta come valle dei pittori a ridosso della Svizzera, 25 anni fa fu assunta una iniziativa analoga per valorizzare i 15 formaggi caprini italiani o prodotti nelle malghe o nei caseifici locali disseminati nei comuni di Santa Maria, di Malesco e di Re fino al confine con la Confederazione Elvetica, segnalato dal valico di Ponte Ribellasca. Altre iniziative sono in progetto nell’Astigiano e in angoli valsesiani che confinano con il Biellese e la Valle d’Aosta. In tutte queste aree, ad incominciare dal Cuneese occitano che confina con le alpi francesi note per Lourdes e la pastorella Bernadette Soubirous che dopo la santificazione di Papa Pio IX divenne la protezione dei pastori, gli obiettivi furono pochi e essenziali: valorizzare il lavoro impegnativo della pastorizia anche a tutela dell’ambiente; e la ulteriore valorizzazione degli armenti nei prossimi anni destinati ad aumentare, secondo lo studio di Giuseppe Pulina, condotto lo scorso anno per conto della rivista romana Ruminantia.
Il contesto dell’allevamento delle capre, che dovrebbe mutare fino a circa il 2030, presenta statistiche e storia importanti che riguardano la pastorizia specializzata di 10.000 anni fa, l’alto e basso medioevo, le vicende istituzionali dell’800 n Europa, le norme repressive dei governi negli anni Trenta del XX secolo. Oggi per il latte e la lana l’allevamento delle capre riguarderebbe 2.200 milioni di capre e pecore che sono dilagate in Asia minore, nel Caucaso, in Turkestan, in Iran, nel Boulacistan, in Pakistan, in India. Le produzioni di capre di questi paesi, compresi gli agnelli con il marchio italiano, costituiranno in prospettiva una minaccia per il nostro import. Per ora il contrasto da esplicare in Europa comunitaria riguarda Francia, Italia con le regioni centro-meridionali, Grecia e Spagna. La Grecia propone la feta dop che talvolta consente frodi che gli italiani sono abituati a tollerare, mentre il maggior concorrente dei formaggi francesi e italiani in genere è rappresentato dalla Spagna. Infatti in Spagna ci sono ben 7 formaggi di capra dop : Murcia al vino, Murcia, Majorero, Palmero, Fior de Guia, Ibores, Camerano. E la maggior parte del latte di capra spagnolo (90,8, in media, 2,5 litri al giorno) viene trasformato industrialmente. In Francia è invece preminente il commercio di carne di capra proveniente dagli allevamenti e che dovrà reggere la futura concorrenza della istituzione del marchio varato in Piemonte e altrove con massicci acquisti di agnelli per tradizione in prossimità delle feste pasquali, o negli empori per lo più frequentati da stranieri con diverse abitudini alimentari.
Nello studio di Ruminantia sono anche stati pubblicati i grafici che prevedono la diffusione dell’allevamento delle capre al 2040: 30.000 alimenti in crescita al ritmo di circa 1000 animali all’anno e 14.000 di litri di latte caprino con queste concentrazioni globali: 52,7% in Asia, 25,7% in Africa, 16,6% in Europa, 4,9% in America. Secondo le previsioni anche per l’influenza delle mode alimentari del momento, il latte caprino nei prossimi anni potrebbe battere il latte bovino attestandosi sull’incremento del 50%.
Non sempre la storia ha trattato bene le capre, considerandole animali che distruggono i raccolti e le boscaglie, o come nel medioevo, raffigurandole come figlie del diavolo. Quasi come i cinghiali e i selvatici, negli anni Trenta del secolo scorso per combattere l’animale fu istituito una tassa per le capre, dovuta all’erario da tutti i possessori. Però le boscaglie e le colture produttive divorate dai capridi, catalogati da Linneo alla fine del 1700, rimasero. Anni fa il termine capra fu adottato con significato dispregiativo dal critico artistico e politico Vittorio Sgarbi ma un allevatore della zona di Macugnaga se ne risentì ruvidamente. E puntualizzò che le capre, soprattutto da latte, e gli agnelli come sostiene lo studio di Ruminantia offrono alle famiglie rurali l’opportunità di aumentare il loro reddito e utilizzare il lavoro familiare più intensamente, come sta accadendo in Italia, Grecia, Francia, Spagna dove il latte di capra e i formaggi dop stanno sempre più diventando una eccellenza alimentare e gastronomica
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