di Enrico Villa
Nel 643, a Pavia, Rotari re longobardo stese il codice di diritto con un documento la cui seconda copia si trova a Vercelli nell’Archivio capitolare. Nelle selve di castagne che si erano diffuse in Europa partendo dai monti caucasici, con principii oggi non più usati erano regolati sia l’accesso delle persone e degli animali. Le castagne che dopo la raccolta rimanevano a terra tra i funghi e a disposizione dei poveri, erano dette del ruspo. Però gli animali che entravano nella boscaglia e dove era iniziata la raccolta, dovevano osservare i principi dettati dal rumo. Allora la controversia fra castagne selvatiche e marroni (dal tedesco) fra i botanici era ancora lontana di centinaia di anni. Ma l’opposizione fra due classificazioni fu superata con un Regio Decreto nel 1939. La differenza fra castagne offerte dalle bancarelle sulle strade italiane con le sue otto o dieci varietà e i marroni molto pregiati ricercati dall’industria dolciaria nazionale, era così diventata più netta.
Stefano Jacini, autore della prima inchiesta agraria del Regno d’Italia, dedicò molta attenzione sia alle castagne che ai marroni anche oggi diventati molto importanti in autunno, dopo la festività agricola di San Martino. Infatti l’una e l’altro – si calcola dal XVII secolo – risolvettero il problema della fame e della sottonutrizione. Castagne e marroni per caratteristiche sono molto simili a grano e riso, tanto che la popolazione rurale della Penisola gli diede questo nome significativo: albero del pane, analogo ma diverso da un vegetale che cresce in Oriente.
L’importanza nutrizionale di castagne e marroni è evidenziata dalla involuzione dei consumi. Nel 1600, quando l’agricoltura italiana incominciò ad assumere un assetto diverso con la formazione della borghesia in città e della ruralità in campagna, il consumo pro capite di castagne (Castanea sativa, così battezzata nel 1759 dal botanico inglese Miller) sarebbe stato addirittura di 240 chilogrammi i quali sarebbero progressivamente scesi: a 0,75 grammi oggigiorno, preceduti da 30,7 chilogrammi (1901/1915), da 10 chilogrammi (1946/1950) da 4,7 chilogrammi intorno ai primi anni Novanta).
Gli specialisti del settore osservano che per le castagne e i marroni il Novecento fu un secolo contradditorio, assillato dalle patologie che anche decimarono i castagneti cuneesi, torinesi, emiliani, toscani, calabresi: la Cydia fagigladana, la Cydia splendana, il Pammene fasciano, il Curculio elephants, il Cinipide galligeno. Quest’ultimo ha procurato danni a dir poco biblici, nel Cuneese e in Piemonte dove i castagneti con castagne igp riguardano 110 comuni e circa 5000 ettari di bosco. Anche altrove (Torino, Verona, Trento, Firenze, Arezzo) il Cinipide galligeno ha dovuto essere affrontato, provocando prezzi elevati per il consumo e per l’industria. Come si sottolinea ora, la campagna di raccolta della castanea sativa nell’autunno 2017 è stata più incoraggiante sia per i prezzi che per le medie unitarie ad ettaro. A pezzatura standard le quotazioni oscillano fra 4 euro/kg a 3,6 euro a kg, tuttavia con quotazioni risicate per il prodotto destinato all’industria, importante proprio in queste settimane pre-natalizie e di fine anno: 2 euro al chilogrammo, però rilevato nelle bancarelle di caldarrosto e 0,6 – 0,7 al kg. pagato dalle industrie dolciarie anche primarie.
Diversamente dal passato del XX secolo, negli ultimi anni la cura agricolo/industriale del bosco di castagne, anche con funzioni ecologiche per il forte abbattimento di CO2, è ripresa. L’ambito è, per ora, quello delle categorie della frutticoltura e della frutta secca in genere, che è stata riscoperta da un punto di vista dietetico. Stando ai dati del Censimento Agricoltura (anni 1970, 1982, 1991, 2000) e dell’Istat le aziende castanicole sono tutte medio-piccole, il castagno risulta situato per oltre il 70% sopra i 500 metri di quota, la superficie accidentata è pari a circa un quarto di quella totale. Negli ultimi trent’anni le aziende si sono ridotte del 51,3% con una superficie complessiva del castagneto da frutto ridotta del 47,5%. Lo spopolamento di molte aree e gli ambienti pedoclimatici non favorevoli – è il commento – hanno indotto a praticare colture caratteristiche delle aziende di montagna, con prevalenza di prati permanenti e pascoli. Commercialmente, le filiere castanicole che riguardano circa 43 mila ettari comprendenti le principali varietà anche locali che poi si trovano nei mercati rionali e nella grande distribuzione, devono fronteggiare l’export. Per lunga tradizione con le radici nel basso Medioevo, in Europa l’Italia è il più importante produttore di castagne, anche se da un punto di vista mercantile la frammentazione degli acquisti è notevole. Il primo antagonista dell’Italia è la Repubblica cinese che, proprio per la frammentazione delle nostre imprese produttive e commerciali, ha talvolta la meglio. I 30/35 quintali per ettaro della castanicoltura delle province di Grosseto e di Cuneo, le evoluzioni tecnologiche messe recentemente a punto nella essicazione, nella conservazione e nella produzione di energia come in provincia di La Spezia, la specialità del congelamento e della glassatura praticata da qualche importante industria, fanno correre all’Italia il primato di paese di produttore di castagne e di specialità che, per esempio, vanno dall’ottocentesco castagnaccio al risotto a base di castagne.
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