di Enrico Villa
La risaia dista dai pergolati del kiwi di Borgo D’Ale non più di uno-due chilometri. E il kiwi, da millenni frutto cinese, apparentemente ha poco da spartire con il riso tranne che per la sua comune origine asiatica. Ma dopo il boom della coltivazione dell’ actinidia chinensis ( questo il nome scientifico) in Italia negli anni Settanta, gli chef stellati hanno incominciato a proporre piatti di risotto al kiwi. La variazione sul tema piace. Una in particolare: la consueta tostatura, per esempio del carnalori, sulla base di un soffritto di porri proveniente dalle coltivazioni orticole del ciglianese e del borgodalese irrorato di vino rosso o bianco dei colli novaresi diligentemente sfumato, più alcune fette di kiwi formato nature alla fine della cottura del risotto affondato delicatamente in padella nel cereale pronto da servire. La carica di vitamina c dell’actinidia ( 85% di milligrammi per frutto, più metalli nobili come il ferro) accompagnandosi ai carboidrati del cereale esaltano il piatto da un punto di vista nutrizionale e del gusto.
L’accoppiata kiwi-riso sembra solo adatta a rendere più attraente un ricettario innovativo. E nulla più. Invece, questa stessa accoppiata appare come una classica punta di iceberg. Sopra l’apparenza, appunto. E sotto la storia economica di due eccellenze dell’agroalimentare italiano. La vicenda del riso è nota. Arriva in Italia negli stessi anni della scoperta dell’ America, rivelandosi per le popolazioni e per il potere del tempo un grande aiuto alimentare, che riesce a moltiplicare per sette o otto il suo seme. E’ già nel Settecento le risaie dilagano, sia ad est che ad ovest nella Pianura Padana. Questa carica irresistibile del riso è ben documentata dal poema di Giovan Battista Spolerini. Invece in origine il kiwi e i suoi pergolati di rampicanti fino a dieci metri nella grande area del fiume azzurro cinese producono un frutto prelibato soltanto per gli imperatori, quasi come il riso. Però, diversamente dal cereale, in occidente continua ad essere sconosciuto. Il popolo (e l’imperatore con i suoi notabili) lo chiamano semplicemente yangtao. Poi nei primi anni dell’Ottocento, come il riso, un missionario di ritorno in Europa porta i semi di kiwi nel vecchio continente all’epoca già proteso verso l’agroalimentare, in particolare l’ Inghilterra coloniale e dello sviluppo cui guarda anche Cavour, ministro sabaudo del Commercio, Industria e Agricoltura. Più che altrove, a metà dell’Ottocento l’ actinidia attecchisce e si diffonde in Nuova Zelanda diventandone una coltivazione assai importante. Tuttavia, anche grazie alle sue proprietà organolettiche, la vera svolta economica nel Novecento. Storia che si ripete: la pianta rampicante negli anni Sessanta attecchisce bene negli Usa, in particolare in California (e nel Texas) dove già dominano il riso, il cotone e la frutta importante, come per esempio le prugne. Una circostanza che ha del miracoloso dieci anni dopo in Italia. Le prime coltivazioni di kiwi ( prende nome, per iniziativa degli americani da un piccolo uccello neozelandese che non vola) si ingrossano vistosamente di anno in anno in Piemonte, Veneto, Romagna, Friuli, Lazio, Marche. Adesso l’Italia, secondo la FAO, con oltre 431 mila tonnellate ogni anno di kiwi dopo la Cina è il secondo produttore al mondo seguito da Francia, Nuova Zelanda, Cile, Grecia, Stati Uniti, Iran, Turchia, Giappone, Portogallo. Complessivamente, la produzione di questi paesi è di circa 1 milione 500 mila tonnellate. Da noi, le coltivazioni più importanti di actinidia sono in Lazio ( il 30% della coltura) e in Piemonte (il 20%) dove il kiwi è diventato ragguardevole quasi come la vite nel Cuneese, nel Borgodalese e nel Moncrivellese in provincia di Vercelli. La crescita negli ultimi anni è stata del 6% circa. E questa stessa crescita ha stimolato le amministrazioni regionali che hanno deliberato piani di finanziamento e promulgato bandi per il miglioramento di questo comparto anche con la ricerca e la sperimentazione, da anni di grande rilievo in Nuova Zelanda. In Italia, il principale riferimento scientifico è costituito dalle università di Bologna e di Ferrara, con un apporto tecnico consistente nei prossimi convegni in calendario nel 2015. In essi saranno ulteriormente approfondite le tecniche di coltivazione basate sulla irrigazione a pioggia, sulla vaporizzazione, sulle concimazioni e sui fitofarmaci a base di sali rameici. Ma come il brusone per il riso, un killer per il kiwi che ultimamente ha provocato disastri è la batteriosi in arrivo dall’Asia e meglio conosciuta come PSA. Essa attacca fusti e foglie compromettendo le bacche dopo la fioritura. E, come anche per il riso, è possibile in futuro la contrazione delle superfici investite. Questo nel Cuneese sta già avvenendo.
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