Le etichette di origine dei prodotti agroalimentari, che provengono dalle aree povere in via di sviluppo, aumentano il loro valore commerciale di 50 miliardi di dollari. Ancora di più: i prezzi di vendita dei raccolti in zone considerate marginali e senza apparente possibilità di imporsi sui mercati, ad esempio come quelle sudamericane o asiatiche, hanno ottenuto un incremento di circa il 70% del prezzo di vendita. L’interesse è, pertanto, di puntare sugli igp e sui dop segnalando queste caratteristiche sulle etichette, sempre più gradite ai consumatori che cercano colore, gusto e qualità, anche se il prezzo sui mercati è leggermente più elevato.
Questi dati e queste tendenze sono considerati in due studi della Fao pubblicati nel febbraio dello scorso anno e nella primavera scorsa. Questo stato di cose è anche stato certificato dalla Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo. Emmanuel Hidier, economista del Centro Investimenti della Fao, ha argomentato: Possono essere un percorso per lo sviluppo sostenibile delle comunità rurali promuovendo prodotti di qualità, rafforzando le catene di valore e migliorando l’accesso a mercati più remunerativi. Lo studio Fao della primavera scorsa si riferisce, in particolare, al caffè colombiano, all’indiano tè Darjeelinng, al cavolo Futog che si coltiva e raccoglie in Serbia, al caffè Kona degli Stati Uniti, al formaggio Manchego spagnolo, al pepe Penja del Camerun, allo zafferano Taliouine marocchino. In tutti e nove i casi – commenta la Fao – la registrazione legale all’origine ha sostanzialmente aumentato il prezzo del prodotto finale, con un valore aggiunto compreso fra il 20 e il 50%. E l’istituzione dell’Onu che si occupa di alimentazione nel mondo, ribadisce anche: Uno dei motivi è che i consumatori identificano caratteristiche uniche, come gusto, colore, consistenza e qualità in prodotti con lo status di indicazione geografica, e come tali sono disposti a pagare prezzi più alti. Questo aspetto – è la raccomandazione della Fao – non dovrebbe mai sfuggire sia ai produttori agricoli che agli uomini del marketing con il compito di proporre e lanciare sul mercato un genere alimentare con incisive caratteristiche che anche parlino del territorio nonché delle sue caratteristiche geografiche e culturali. La valorizzazione delle aree dove si sviluppano prodotti specifici è anche richiamata nello studio della Fao del febbraio 2017: anche attraverso il marketing il potenziamento delle aree, come potrebbe essere quella risicola italiana o della orticoltura piemontese o toscana dove conseguire rese produttive più elevate, anche antidoto della povertà e che favorisce una economia più equilibrata.
Nello studio le considerazioni si ampliano a livello globale con il suggerimento di 15 tendenze in atto e con 10 sfide da proporre al mondo agricolo, soffermandosi, appunto, sul conseguimento di migliorare le opportunità di reddito nelle zone rurali e affrontare le cause alla origine della produttività unitaria e della migrazione. In fondo, l’obiettivo anche nelle aree da dove provengono prodotti specifici, è di produrre di più con meno, e il problema va considerato a livello globale. In proposito, anche perché non sempre si tiene conto delle tecniche di valorizzazione e di altri fattori come la scarsità di acqua e il cambiamento climatico, in più casi si perdono buone occasioni. In proposito, il rapporto Fao del 2017 fa notare che dagli anni Novanta gli incrementi medi dei raccolti di mais, di riso e di grano si sono aggirati generalmente intorno a poco più dell’1% l’anno. E lo stesso accade per i generi igp e dop con una domanda mercantile da sfruttare pur rispettando la produzione sostenibile, non abusando contemporaneamente di quanto la tecnologia meccanica e chimica in continua evoluzione mette a disposizione.
Nello scenario tratteggiato dalla Fao nei due rapporti del 2017 e del 2018 presi a riferimento, un freno consistente è rappresentato dalle inclinazioni troppo liberali della Comunità Europea che ha anche coinvolto il riso con tassi zero che rendono più difficoltosa la fame a tasso zero come è proposto dalla Fao. In pratica, questo stesso freno è costituito da accordi dannosi per i prodotti di qualità perfezionati dalla Ue con paesi di importanza mondiale come il Canada, il Messico e gli altri paesi sud americani del Mercosur e del Giappone. Il Messico, ad esempio, si è inventato il Dolcetto caratteristico delle aree specifiche italiane, il Parmesan e altro. E Bruno Rivarossa, delegato regionale di Coldiretti, mette in evidenza queste contraddizioni dannose e non coerenti con gli studi della Fao per sostenere i prodotti locali dotati di spiccate caratteristiche. L’Ue ha perso l’occasione – sostiene Rivarossa, che tempo fa ha anche preso posizione a favore del riso italiano – per combattere il falso a tavola . Non solo, come sancisce l’accordo con il Messico, ben oltre il Dolcetto. Infatti in Messico potranno essere prodotti e venduti senza limiti oltre il 90% degli 817 prodotti a denominazione di origine nazionali riconosciuti in Italia e nell’Unione Europea (293 prodotti alimentari e 523 vini). Se le cose andranno veramente così, in fondo gli studi e i apporti Fao si riveleranno aria fritta, come Bruno Rivarossa lascia intendere con le sue analisi economiche puntuali.
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