L’Istat nei giorni scorsi, per la prima volta, ha inserito nella borsa della spesa i consumi dei vegani e, rispetto al recente passato, è stata riconosciutala loro importanza sia filosofica che per la capacità di influenzare i consumi correnti. Forse è un dato reale che prima non esisteva, come evidenzia la sociologia di cui bisognerà sempre più tenere conto nei sondaggi di marketing. La tendenza era stata colta da anni da istituzioni come la Nielsen. Le ultime statistiche confermerebbero. In Italia i vegani quali consumatori di cibi di provenienza non animale, sarebbero il 15% della popolazione. E in Europa su questa scelta si sarebbe attestata una popolazione di 7 milioni, prevalenti in Germania e nei paesi scandinavi.
La stessa scelta, che anche esclude il latte e i suoi derivati come i formaggi cui il nostro Paese è assai interessato, prospetta percentuali interessanti: il 31% dei vegani opta per il rispetto degli animali che non devono soffrire a causa dell’uomo; il 24% per ragioni di salute, prevalendo il presupposto che le carni bovine, suine e del pollame sono controindicate; il 9% circa sostenendo che gli allevamenti pesano sull’ambiente e provocano una enorme quantità di gas serra che condiziona i normali corsi meteorologici.
I sondaggisti, che si sono soffermati sul fenomeno vegano in Europa, hanno sottolineato altri aspetti, appunto significativi da un punto di vista della sociologia: l’apertura di parrucchieri dichiaratamente vegani per i materiali che utilizzano (tinture e altro di origine vegetale) e le farmacie più vicine alle moderne erboristerie. Ma il marchio vegano figura più di un tempo in prodotti in sostituzione della carne, in Italia consumata intorno ai 78 chilogrammi pro capite: gli hamburger di soia, gli affettati e i formaggi che vengono tratti, ad esempio, dalle barbabietole, con la prova che il veganismo favorisce la conoscenza delle strutture fisico-chimiche del mondo vegetale e le tecnologie alimentari che potrebbero fare a meno delle proteine animali. Anche in questi casi soccorrono i dati ampiamente citati in Europa. Negli ultimi anni in Italia il consumo della carne sarebbe diminuito del 5%, mentre le verdure avrebbero avuto una impennata del 38%. E così sarebbe anche andata per i cereali, in primis il riso. In questa tendenza di possibile cambiamento, che si consoliderà nei prossimi anni, potrebbero prevalere le alternative cui si sta lavorando attivamente da un punto di vista industriale: yogurt e formaggi che rifuggono dai grassi animali; pietanze di ogni genere; le merendine per i ragazzi; le creme ricavate dalle nocciole; le bevande quasi sempre esenti da zuccheri e alcool; cotolette in sostituzione di quelle carnee, ancora utilizzando la soia e i suoi derivati. Menù a base di questi preparati, che l’agroalimentare corrente considera ancora scarsamente, diversamente dalla grande distribuzione. Nel 2016 nell’Europa comunitaria i prodotti vegani hanno attratto l’attenzione del 7,1% della popolazione, commercialmente diventando anche una insidia per formaggi e altri cibi tradizionali; ad esempio nei confronti della carne che, per ora, si è imposta sui mercati internazionali, come testimoniano le ultime statistiche italiane sull’ export agroalimentare.
Un esempio convincente di come il veganismo possa essere messo a frutto industrialmente e nell’ambito della comunicazione pressante, è rappresentato da una impresa con strutture di produzione a Serravalle Sesia, nella bassa Valsesia industriale dove è preminente il tessile, il metalmecccanico e la salumeria industriale: cioè la Valsoia che propone lo slogan societario bontà e salute.
L’impresa, recentemente supportata da un messaggio pubblicitario martellante e penetrante, è stata fondata nel 1990 a Bologna da Lorenzo Sassoli de Bianchi. La sua missione aziendale: la trasformazione della soia in alimenti gradevoli per la nutrizione e il dessert. Fra i prodotti di base di Valsoia figura anche il riso che prova come il cereale, fondamentale per la Pianura Padana, sia versatile per i preparati agroalimentari. Nel 1995, un quinquennio dopo la fondazione, Valsoia affronta la non facile impresa della produzione di gelati senza latte vaccino, anche utilizzando il riso della vicina pianura del Sesia. Secondo le schede dedicate a Valsoia la sua sede operativa è a Bologna, lo stabilimento di produzione a Serravalle Sesia, la sede legale a Lubiana in Slovenia e, secondo il Sole 24 Ore, ha cinque concorrenti internazionali. In pochi anni, il giro d’affari di Valsoia ha raggiunto cifre ragguardevoli, e nel 2006, dopo un exploit aziendale, l’impresa si colloca in Borsa. Intanto, i marchi appartenenti al gruppo Valsoia aumentano, cosicché nel 2016 – dati di Bilancio del novembre scorso – il fatturato si attesta in termini finanziari consistenti. Contemporaneamente, il gruppo Valsoia si impone in Europa e internazionalmente, con la conferma che dal mondo vegetale, grazie alla organizzazione imprenditoriale e alla intelligente comunicazione verso i consumi, si può anche “ricavare oro”. Gli ultimi rilievi della Nielsen indicano che Valsoia ha come interlocutori stabili 4 milioni di famiglie che, all’incirca, rappresentano un universo aziendale del 60%. Il veganismo, con Valsoia azienda ai margini della risaia italiana, ha fatto un ulteriore poderoso passo in avanti.
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