di Enrico Villa
Confagricoltura con i moderni patti agrari punta ai giovani. Dando loro la effettiva possibilità di usufruirne anche da un punto di vista fiscale, carente, l’agricoltura italiana ritroverà un suo equilibrio. Confagricoltura ha appena dedicato convegni a questo tema. Mario Guidi, il suo presidente, ha così argomentato: non c’è dubbio che l’affitto, specie per i giovani è una potente leva per la competitività delle aziende che così possono disporre di più ampie superfici. Come in un suo studio ha rilevato l’Ismea, in Italia meno aziende anche per colpa della crisi perdurante, bensì poderi più ampi che facilitano maggiori produzioni. Anche in Piemonte, sul totale, le sau in affitto sono il 36,%. In Italia, contro una sau media del 38% le superfici che sono scese nel 2000 da 2,4 milioni di ettari a un milione seicento mila ettari. Con punte massime del 47,1% in pianura e in montagna, dove sussiste acuto il problema dei pascoli, del 40,3%.
Lo stato della rinascita
Adesso, come un secolo fa alla vigilia dell’ Unità del nostro Paese, ciò che interessa l’agricoltura interessa l’intero Paese, come già nel 1926 scrisse l’economista Francesco Coletti, Università di Pavia, nella prefazione alla riedizione della inchiesta agraria di Stefano Jacini (1826/1891). L’inchiesta agraria, che fotografò lo “stato della rinascita” dopo la frantumazione storica del Paese, si era svolta per conto del Parlamento dal 1877 al 1885 con un impegno di spesa di 355.000 lire. Allora, in un contesto importante di infrastrutture (trafori, linee ferroviarie, porti, stabilimenti) fece commentare all’economista cremonese e ministro dei lavori pubblici Stefano Jacini, autore della inchiesta agraria, che stava avvenendo un primo intreccio fra agricoltura, industria e commercio italiani. Ma Jacini, scelto da Cavour, e non sempre ricordato dagli storici risorgimentali, osservò anche nei suoi saggi (La proprietà fondiaria e la popolazione) che in funzione dell’agricoltura il territorio non era sufficientemente impiegato. Infatti su una superficie impiegata di 26.600 milioni ettari, ben 5.600 milioni ettari non erano produttivi, con grave riflesso sociale per le popolazioni. In ordine di tempo, era uno degli ultimi retaggi del XVIII secolo quando nella Pianura Padana, specialmente nell’area zootecnica di Lodi e Cremona, si affermarono i patti agrari perché i contadini rendessero produttivi al massimo gli appezzamenti, il terreno lavorato procurasse derrate per combattere la fame.
Con tante variazioni e applicazioni, la storia dei patti agrari è complicata, e inizia dal patto, definito dei servi della gleba, con l’obbligo di quanti stavano sul fondo di rispettare le clausole concordate con il titolare della proprietà, avuta in concessione dal sovrano, massimo titolare del potere. La contropartita di chi prestava il proprio lavoro era la tutela legale ed altri obblighi di chi concedeva l’appezzamento, tuttavia con la facoltà, ereditariamente trasferibile, di permanere sul terreno.
Questa impostazione giuridico-strutturale, che suscitò molte protesta, in Europa (in Germania particolarmente) e in Russia perdurò fino al XIX secolo, intensificandosi nel XV e nel XVI secolo. Infatti, la prima sistemazione giuridica di proprietà in relazione al lavoro obbligatorio avvenne nel 1524 con l’editto di Federico I di Danimarca, nei decenni successivi trasformandosi in mezzadria (divisione dei frutti al 50% tra proprietà e lavoro), soccida in relazione all’allevamento. La prima grande svolta al contratto servitù della gleba e alle variazioni successive, in Italia avvenne a Bologna il 3 giugno 1271, allorché i titolari laici delle proprietà nonché gli ordini religiosi rinunciarono gratis alle clausole che furono ritenute vessatorie e anti sociali.
Però, le radici dei patti agrari si perdono nelle decisioni degli imperatori Diocleziano (244/318, III secolo) e Valeriano, defunto nel 260 d.c. che regolamentò il contratto di livello, un patto particolare che, difeso il reddito prodotto, stabiliva clausole molto rigide per il contadino beneficiario. Nella tarda epoca romana i vincoli previsti dai contrari agrari avevano una ragione chiara: trattenere la popolazione sulla terra, così contrastando anche le invasioni barbariche dal Nord. Poi negli anni Settanta e Ottanta, il Parlamento Italiano promulgò la legge n.203 del 3 maggio 1982 che trasformava tutti i contratti agrari vigenti in contratti di affitto, con diritto di prelazione per l’acquisto da parte del coltivatore diretto e del còlono. Di qui, la necessità di norme regionali e statali per concedere capitali pubblici destinati a nuovi terreni per i giovani. E di qui norme fiscali più adeguate, come richiede il presidente di Confagricoltura Mario Guidi.
Storicamente, alla nascita della legge 3 maggio 1982 n.203 ha contribuito fortemente la Federazione Coltivatori Diretti, insistendo dalla fine del secondo conflitto mondiale. Paolo Bonomi il 30 ottobre 1944, fiancheggiato da Renzo Franzo (Palestro 1914) e da altri, definì compiutamente la figura del coltivatore diretto che professionalmente, per l’ampiamento delle proprie aziende necessita di articolati e efficaci patti di affitto dei terreni produttivi. Una traccia importante dei vecchi patti agrari è rappresentata dalla ricorrenza di san Martino, l’11 novembre. In questa data terminavano i patti agrari stipulati e il contadino e la sua famiglia abbandonavano il fondo su cui avevano lavorato.
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