di EnricoVilla
Franco Biraghi (nella foto tratta da LangheRoeroMonferrato) ai vertici di una industria casearia, è uno dei pochi imprenditori che guida una impresa del comparto agroalimentare. Le sue strutture produttive sono a Cavallermaggiore e altrove in provincia di Cuneo, nel cuore dell’area agroalimentare della Pianura Padana, da sempre con la vocazione per il cibo gradito alla massa dei consumatori residenti a Torino, Milano, Genova ecc. E’ l’erede storico di una lunga tradizione che si dipana dalla pianura, in particolare il Lodigiano delle marcite e del bestiame grosso, che hanno sempre garantito latte e carne di qualità. E, infatti, i suoi avi incominciarono a raccogliere e a commerciare latte, partendo da Lodi e Cremona. Poi nel 1934, in anni in cui il Piemonte e la Lombardia registrarono la fioritura di aziende agroalimentari- compresa la risicoltura vercellese e novarese- Ferruccio Biraghi fondò la industria casearia omonima che – sottolineano le schede illustrative dell’impresa piemontese – scelse subito il binomio tradizione/tecnologia, allo scopo di garantire formaggi veritieri, sempre in grado di non tradire le aspettative dei consumatori.
La Biraghi, nell’ambito del consorzio del Gorgonzola di Novara, accanto al “Gran Biraghi” e ai deliziosi cubetti di grana, produce in quantitativi apprezzabili il formaggio arborirato sempre più sulla tavola dei bongustai in aumento. Non solo. Come confermano i contratti con i gruppi di produttori di latte, la Biraghi procede da tempo ad una scelta impegnativa: produrre solamente con latte italiano, rafforzando così l’impostazione di Coldiretti nazionale secondo la quale ogni prodotto agroalimentare proveniente dall’estero deve sempre essere marchiato con l’etichetta di provenienza, di conseguenza tutelando anche i consumatori più sprovveduti e distratti i quali si fanno attrarre da latte innominato, proveniente da Germania, paesi scandinavi, Albania, Serbia, Macedonia, Bulgaria. Da questi stessi paesi arriva anche latte ovino e caprino, prodotto di base per il pecorino sul cui formaggio di qualità nello scorso mese di giugno la Biraghi ha fatto una scommessa: come istituire una filiera piemontese di latte ovino per alimentare nella regione subalpina l’industria e l’artigianato caseario così importante in Sardegna, Lazio e in altre regioni italiane. Come ricordano le cronache giornalistiche specialistiche dello scorso mese di giugno, la Biraghi promosse un convegno ad hoc a Savigliano, a Palazzo Taffini, dove non furono nascoste le difficoltà dell’iniziativa. Come evidenziato da Claudio Testa, “La domanda di questo tipo di prodotto è in costante crescita e il grattuggiato di pecorino sta iniziando a conquistare i consumatori, con ampi spazi di crescita. Utilizzare materia prima 100% piemontese è da sempre un nostro importante valore e da qui l’idea di produrre da latte raccolto totalmente nella nostra regione”. Da questa argomentazione, anche l’ipotesi sulla quale si sono soffermati ugualmente Giorgio Ferrero, assessore all’agricoltura del Piemonte e Tiziano Valperga, direttore Arap: un Pecorino di nicchia piemontese da imporre su un mercato, dove il pecorino taroccato abbonda, proveniente dagli Stati Uniti, dalla Russia nonché da alcuni Paesi asiatici.
In ogni caso, la nicchia ipotizzata ha confini assai angusti, come è evidenziato dalla realtà italiana, recentemente riproposta da quello che in effetti sta avvenendo. Infatti, ogni regione italiana ha il suo pecorino, con le radici profonde nella tradizione locale, molto frequentemente disciplinato da regolamenti: in Sardegna, in Lazio, in Emilia Romagna, in Abruzzo, in Umbria, nelle Marche, in Campania, in Puglia, in Basilicata, in Sicilia. In tutto,12 pecorini regionali alcuni dei quali figurano nei menù stellati, o sono proposti dagli esperti internazionali di cucina. La proposta di un ulteriore pecorino disciplinato e di grande qualità sarebbe, per lo meno, una impresa di difficile realizzazione.
Tuttavia, i precedenti cui anche si sono riferiti gli uomini di marketing della Biraghi impostando il convegno di Savigliano dello scorso mese di giugno, sono molto interessanti. La Coldiretti nazionale e gli altri organizzatori del Pecora Day svoltosi a L’Aquila il 17 maggio hanno insistito, nonostante tutto, su questo fatto: dopo decenni, gli ovini in Italia sono in crescita, gli animali sono ormai 7,2 milioni di capi, 38 razze in estinzione sono state salvate; e quello che più importa, alla pastorizia sulle nostre aree alpine stanno ritornando duemila nuovi giovani imprenditori. Anche da un punto di vista economico è presene un “tallone di Achille” per la pastorizia che, in teoria, farebbe pensare a nuovi spazi per il pecorino italiano. Infatti, le importazioni nel 2015 sono aumentate del 181% e il mercato italiano è stato “inondato” da 40.000 forme di pecorino taroccato in arrivo dalla Repubblica Ceka e dalla Romania. Ogni tre forme di pecorino su 4 non sono italiane. E, pertanto, lo spazio indicato dalla Biraghi con il convegno proposto a Savigliano su “latte ovino: un’occasione per gli allevatori piemontesi” esiste, nonostante le aumentate aggressioni in montagna dei lupi e di altri rapagi. Ma questo è un discorso a sè, comunque molto serio e da sviluppare con urgenza
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