di Gianfranco Quaglia
Consuma più acqua una risaia o un telefonino? La risposta sembrerebbe ovvia: occorre maggiore fabbisgono idrico per produrre riso. Invece non è proprio così. La polemica sull’impronta ecologica idrica (water footprint) è annosa e ogni volta mette sotto accusa tutto il settore agroalimentare. In realtà il concetto di spreco d’acqua deve essere aggiornato. Il tema è stato affrontato anche a Expo, dove Alessandro Manzardo, ricercatore del centro studi qualità e ambiente del Dipartimento Ingegneria idustriale dell’Università di Padova, è intervenuto al convegno «Nutrire il pianeta, acqua per la vita». Manzardo afferma che «l’importante concetto di impronta idrica va aggiornato con nuovi parametri, sui quali stiamo studiando e che non potranno prescindere dal contesto, nel quale l’acqua viene utilizzata». Il confronto con il telefonino non è azzardato. Il presidente dell’Associazione nazionale Consorzi Gestione tutela territorio e acque irrigue (Anbi), Francesco Vincenzi: «L’annuncio accredita quanto da sempre sosteniamo: il vero problema non è l’acqua utilizata per produrre alimenti ed il cui uso efficiente è perseguito dai Consorzi irrigui, perché resta comunque nel ciclo vitale, pur essendo necessaria una riflessione sugli stili di vita nutrizionali. Il vero problema sono i 10 mila litri d’acqua necessari per un paio di jeans o i 2500 per una t-shirt, senza considerare quella necessaria per i telefoni e le auto, perché viene restituita all’ambiente con qualità peggiore di come è prelevata».
Sotto accusa, poi, la delocalizzazione: Vincenzi ricorda che queste produzioni spesso avvengono in Paesi già a forte deficit idrico, peggiorando la sete di quelle popolazioni.
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