di Enrico Villa
Nel Settecento Linneo catalogò questa miniera di proteine vegetali, che sostituiscono benissimo quelle animali, come phaseolus vulgaris. Era la varietà più diffusa delle centinaia che popolano la Terra, circa una quindicina diffuse nelle 21 regioni del nostro Paese. Oltre cinquecento anni fa, poco dopo la scoperta dell’America, gli uomini di Colombo notarono questo baccello talvolta carnoso, sempre assai nutriente, nell’America Centrale. E in poco tempo i suoi semi approdarono in Europa, anche negli “orti di sopravvivenza” della Pianura Padana, accanto al riso proveniente dalla Cina il cui seme si moltiplicava nove volte per fronteggiare la fame del popolo minuto.
Da allora, il fagiolo volgare linneano e il riso hanno costituito un binomio inseparabile. Infatti non c’è minestra di riso, o risotto come sarebbe stato chiamato più tardi, che possa fare a meno di questo baccello che addensa il piatto rendendolo più gustoso assieme alle cotiche di maiale, al salam dla douja e alle verdure, originariamente anche provenienti dall’orto dietro casa. Nel Vercellese e nel Novarese il risotto chiamato panissa o paniscia senza phaseolus vulgaris sarebbe una specie di sacrilegio gastronomico. Gli storici delle cucine popolari (anche Artusi) sono andati a più riprese a frugare negli archivi delle case nobiliari o negli antichi scritti e documenti. Così è stato stabilito che anche in Piemonte, nelle aree appartenenti alle province di Torino e di Cuneo i fagioli come ingredienti principali dei nutrimenti di base erano già utilizzati nel XVI secolo. Le prime ricette ritrovate riguardanti i risotti con fagioli, appunto le panisse o panisce, sono datate a metà dell’Ottocento piemontese e lombardo. Più precisamente 1851, come è richiamato in carte riferite a matrimoni e feste. O 1848 come risulta dalla documentazione della compagnia di amanti della cucina locale che, per gustare la panissa, avevano fondato un circolo a Larizzate, alle porte di Vercelli, che raggiungevano in carrozza o a cavallo. A Torquato Tasso nel suo viaggio da Milano a Torino con sosta a Borgovercelli ospite di un nobile locale, fra l’altro fu offerta minestra di riso e fagioli.
Il phaseolus vulgaris, che ha anche ispirato personaggi della letteratura come Bertoldo, contadino un po’ rude ma molto arguto, ha dato luogo ad una disfida, fortunatamente incruenta a differenza di altre della tradizione italiana. Il fagiolo è coltivato, in ripresa rispetto al passato, a Saluggia centro dell’alto Vercellese assai importante tecnologicamente. Come ogni anno qui nell’ultimo weekend di ottobre sarà rimarcata l’importanza alimentale e della tradizione del fagiolo a cui si sta interessando da anni la Regione Piemonte. Ma rivendicando il suo primato il fagiolo è un fiore all’occhiello gastronomico anche a Villata, poco distante dal fiume Sesia e in un’area importante “sospesa” fra Vercellese e Novarese. Anzi, come ricorda Slow Food, qui per crescere il fagiolo più gracile si è sempre servito del mais, originariamente anche arrivato dalle terre degli Atzechi. Infatti, la sua pianticina si arrampica letteralmente servendosi dello stelo del granoturco. Come è spiegato in sede tecnica, sono stati fatti tentativi genetici per ottenere seme di fagiolo frutto del matrimonio fra quello di Saluggia e quello di Villata.
I legumi (è il caso del fagiolo), come del resto i cereali (appunto il riso, fra gli altri) sono stati riscoperti dalla grande cucina internazionale. A Parigi un locale di livello mondiale, appena riaperto dopo i restauri, dedica i propri menu a fagioli, cereali, verdura rinunciando alla carne. E’ il primato delle proteine vegetali che in Italia sono assicurate da Campania, Emilia, Toscana, anche Lombardia e Piemonte. E che per i fagioli (500 varietà) arrivano sulla Terra da 25 milioni di ettari che producono 18 milioni di tonnellate di baccelli, solo secondi a quelli altrettanto energetici di soja.
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