Una mela al giorno (italiani fra i maggiori consumatori)

Una mela al giorno (italiani fra i maggiori consumatori)

di Enrico Villa

La terra, 2500 anni fa, era coperta di conifere in mezzo alle quali vivevano il tyrannosauro e gli altri dinosauri di cui si è persa la traccia, ad eccezione dei parchi geologici allestiti soprattutto negli Stati Uniti. Ma fra le conifere, specialmente nel Kazakistan, nel Turkmenistan e in altre regioni dell’Europa centrale allignava il melo appartenente alla famiglia delle rosacee con coltivazioni in California. Oggi il frutto – 5o varietà per essere precisi – anima l’esportazione da paese a paese, apprezzato economicamente e che ha parzialmente risolto il problema dell’alimentazione sia nell’emisfero Nord che il quello Sud del mondo. Così che in India e in Cina non possono fare a meno dei meleti, in Giappone diventato una pianta da ornamento. E lo stesso accade in Australia, in Oceania e in Europa dove il frutto è saldamente entrato nelle tradizioni gastronomiche e industriali, specialmente nel Nord. In una analisi tratta da Assomele l’organizzazione che in Italia cura il comparto agricolo specifico, i paesi dell’emisfero sud vendono grandi opportunità sul mercato asiatico che tendono a privilegiare rispetto all’Europa che, negli ultimi anni, era stata poco presente.

In Italia il comparto agricolo e merceologico va bene: nel Trentino e nelle Alpi dell’Est, in Emilia Romagna, in Piemonte e altrove nella penisola. Secondo gli ultimi calcoli che dovrebbero essere verificati in autunno, il raccolto nei meleti che hanno sollecitato fortemente l’applicazione delle tecniche pubblicitarie e di marketing, all’inizio in altri comparti agricoalmentari sta aumentando dell’8% circa. Forse a fine stagione ci troveremo con una massa commerciabile di 810 mila tonnellate circa, che secondo tutte le varietà e le propensioni dei consumatori con una domanda vivace di mele, il frutto nazionale più quelli di esportazione potrebbe salire a fine stagione a1 milione 200 mila tonnellate circa di frutti di varietà diverse, tenendo vivo il sistema delle cooperative che si è rafforzato, ma soprattutto gli impianti di refrigerazione nonché le unità industriali per la produzione dei succhi, delle marmellate, di purea di mele e di snack, più le distillerie che utilizzano il prodotto per trasformarlo in liquore a bassa gradazione o ad alta gradazione come il calvados, in Francia coperto dal Dop.

Recentemente, il dipartimento di scienze agrarie dell’Università di Bologna ha effettuato un completo sondaggio. E la relativa inchiesta di marketing, ricca di spunti e di dati, è arrivata a questa conclusione: il consumo pro-capite di mele sostenute dalla pubblicità e da altri messaggi di comunicazione è di 3 chilogrammi di mele che in un anno diventano 320 chilogrammi. In Europa il consumo è di 1,5 chilogrammi pro-capite che salgono sensibilmente quando il consumatore comunitario reperisce prodotto senza trattamenti chimici dichiarati, oppure con scarsi trattamenti.

Specialmente nelle aree di montagna, dove la coltivazione di mele era abbastanza diffusa, il frutto dal XIX secolo al Novecento fino all’indomani della seconda guerra mondiale (circa gli anni Cinquanta) i frutti erano conservati in locali freddi su tralici ed assi. In una memorabile inchiesta turistica-economica il quotidiano torinese la Stampa descrisse quanto avveniva in Valle d’Aosta ai piedi del Monte Bianco con meleti diffusi. Eravamo nel 2013, un lustro fa, e l’inchiesta sottolineò che il sidro, il classico liquore di mele dal quale si ricavano brandy ad alta gradazione, dopo una lunga pausa stava ritornando nelle zone di montagna. In realtà stava accadendo quanto avviene comunemente in Francia, fra la Normandia e la regione del Calvados perché brulla e così è stata nominata nel Settecento da marinai giunti a bordo di un veliero. Ogni anno una quarantina di produttori di mele portano il loro raccolto in distilleria che viene trasformato in calvados, con un Dop comunitario imposto in tutta Europa, e disponibile per gli amanti di un liquore, o di una bevanda a bassa o alta gradazione con le origini medioevali.

Le origini di questo liquore sono infatti rintracciate in un editto di Carlo Magno (742/814) che puniva i tagliatori rami di meleti per procurarsi legna da ardere. Un altro documento fa risalire una distilleria per il calvados al 1554, mentre questo liquore e suoi produttori fecero la loro fortuna nel XIX secolo, negli anni della fillossera della vite. Di conseguenza meno vino per l’acquavite di vino e maggior spazio per l’acquavite di mele e di pere con un prodotto che tende a riaffermarsi accanto ad altri liquori che vanno per la maggiore.

Nella seconda metà del Settecento il medico e botanico svedese Carlo Linneo (1701/1778) catalogò il melo da un punto di vista scientifico. Ma il lavoro di Linneo non piacque al botanico inglese Philip Miller (1690/1771), direttore di un grande giardino botanico il quale inquadrò in modo diverso la pianta delle rosacee che, comunque, si stava diffondendo in ogni emisero del globo. Tuttavia il giallo delle origini della pianta e del suo frutto permaneva. La chiave di lettura fu individuata dal genetista russo Nicolai Vavilov (18871943) cui, a suo tempo, fu intitolato l’Istituto di genetica di San Pietroburgo.

Vavilov con un lavoro paziente di anni sulle origini dei semi, riuscì a classificare la provenienza del melo: dall’area che salda il territorio russo a quello asiatico. Il successo scientifico attribuito al genetista russo è rilevante non solo per il melo, affermatosi in tutto il mondo e miniera di sostanze nutritive ma anche per il livello della biodiversità e della conoscenza delle origini delle piante alimentari che popolano la Terra

mela

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