Parlare di malaria nel 2018 in Italia ha ancora un senso? Questa parassitosi, che nei secoli scorsi era diffusa in modo impressionante nelle zone acquitrinose e sovente messa in relazione con le risaie, tanto da vietare la coltivazione in alcune zone, in realtà ha avuto riscontri anche nella seconda metà del Novecento. Poi è praticamente scomparsa, se non per riemergere in sporadiche circostanze legate a episodi isolati, riconducibili a soggetti arrivati da paesi africani, come in un paio di casi recenti segnalati in provincia dio Torino e ben circoscritti.
Ma non è del pericolo di contagio che Massimo Conocchia parla nel suo libro “La malaria in Calabria tra fine Ottocento e primo Novecento (una storia tragica tra miopie istituzionali e impegno dei singoli” (Edizioni Rubbettino, con premessa di Pasquale Tuscano). Conocchia, calabrese di Acri, cardiochirurgo e cardiologo affermato e trapiantato al Nord, dirigente medico primo livello presso la Cradiochirurgia dell’Azienda ospedaliera universitaria Maggiore della Carità di Novara, oltre a essere docente universitario alla scuola di specializzazione in malattie dell’apparato cardiovascolare, ha voluto ripercorrere il cammino e la diffusione di una malattia che segnò in modo indelebile la gente della sua terra. Non è uno “screening” medico, quello di Conocchia ma un viaggio antropologico-sociologico che ricostruisce la storia del proletariato e del sottoproletariato italiano a cavallo fra ‘800 e ‘900. la malaria, flagello della gente povera dedita soltanto alla coltivazione del riso per sfamarsi, diventa il filo conduttore di un medico-scrittore che, mosso dalla passione, imprime al rigore scientifico della ricerca un racconto avvincente, che non riguarda soltanto la Calabria, la piana di Sibari in provincia di Cosenza, dove ancora oggi si coltiva riso naturalmente in ben altre condizioni. E’ la storia di sofferenze e privazioni, ma soprattutto di lotte per affrancarsi da un mondo di arretratezza. Ed ecco che Conocchia scandaglia oltre il Cosentino, spingendosi sino alle pianure di Novara e Vercelli: perché la terra è bassa e la fatica per coltivarla non ha confini geografici o differenze. Accomuna tutti coloro che la conoscevano, i braccianti del Sud e le mondine del Nord, che con i loro canti di denuncia, i “blues” della risaia, levavano la testa e un grido di emancipazione. Conocchia le ricorda e dedica a quelle lotte un passaggio preciso, nel capitolo “Miseria e malaria: un binomio terribile”. “In Piemonte, ai primi del secolo scorso – scrive – vi fu un deputato del Vercellese, l’avvocato Modesto Cugnolio, che divenne l’eroe delle mondine, in quanto riuscì a ottenere dal governo Giolitti l’applicazione di una vecchia legge, di qualche decennio precedente, la cosiddetta legge Cantelli. Essa era basata su un falso presupposto, ossia che la malaria fosse dovuta all’aria malsana e ai miasmi atmosferici, per cui vietava il lavoro nelle risaie all’alba e al tramonto. Si arrivò, così gradualmente, a una riduzione dell’orario di lavoro”. Un accenno anche a un’altra testimonianza che arriva da Novara, nel romanzo “In risaia” de La Marchesa Colombi: la protagonista è la giovane mondina Nanna che come tutte le sue colleghe si ammala delle febbri “intermittenti” e se la cava con due settimane in ospedale.
Nella ricostruzione dello spaccato sociale, l’autore descrive le condizioni in cui vivevano i contadini della Calabria e arriva sino al 1970, quando l’Oms ha dichiarato l’Italia libera dalla malaria. Prima di quella data parecchie le campagne di profilassi e soprattutto le azioni per elevare il tenore di vita e di lavoro, presupposti indispensabili da cui partire per combattere la malaria. Conocchia rende merito ad alcune figure che hanno segnato il cammino: Umberto Zanotti Bianco, Pietro Timpano, Francesco Genovese, Tiberio Evoli, Piero Viola, Demetrio Meduri, Francesco Maria Greco.
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