di Enrico Villa
Le api di 1.100.000 alveari italiani, per il freddo e la siccità estiva nell’estate 2017 sono andate in crisi, producendo il 70% in meno di miele. Di conseguenza, il danno è stato economico, forse anche biologico. I 7.500 allevatori si sono trovati a fare conti più magri con circa 55 miliardi di api allevate, che nelle annate migliori producono circa 11.000 tonnellate di miele, e hanno dovuto rinunciare a un valore monetario di 20,6 milioni di euro, che ha influenzato l’indotto il quale, secondo le valutazioni del ministero delle Politiche Agricole, in anni normali vale 57/62 milioni di Euro. E quello che è più importante ai fini dell’agricoltura e dell’equilibrio biologico: le api attanagliate dalle bizze meteorologiche e dagli effetti dei fitofarmaci hanno rinunciato ad una regolare impollinazione. Secondo le stime, nel 2017 il servizio di impollinazione è sostanzialmente andato al di sotto annuo di 2,6 miliardi di euro, mentre la mancata impollinazione si sarebbe aggirata al di sotto di 2,6/3,6 miliardi di euro.
Confermando l’importanza del comparto da un punto di vista economico e di tutela dell’ambiente, calcoli sono anche stati fatti dalla Fai (Federazione Apicoltori italiani) che fa riferimento a uno studio dell’Unione Europea nell’ambito del Progetto “Alarm”, dell’INRA francese e dell’UFZ tedesco (Centro germanico per le ricerche ambientali). Il servizio di impollinazione che le api assicurano alle sole coltivazioni di interesse alimentare – argomenta la Fai – è pari a 153 miliardi di Euro/annuo. E la Federazione Apicoltori Italiani aggiunge: ” I due gruppi di ricerca hanno effettuato una valutazione economica del danno che la produzione agricola mondiale sta subendo. In alcune aree i biologici hanno assistito ad una vera ecatombe di api che tradotte in cifre ha questo significato: flessione del 9,5% del maggiori prodotti commestibili. Specificatamente, mancando la impollinazione, il comparto ortofrutticolo registrerebbe un danno di 50 miliardi di euro, mentre il comparto degli olii di semi ha perso 39 miliardi di euro, e complessivamente le coltivazioni di interesse alimentare in Europa hanno subito flessioni intorno a 15 milioni di euro. Non solo. La mancata o ridotta impollinazione ha anche alterato l’equilibrio delle estensioni da pascolo in collina e in montagna, la coltivazioni di piante dalle quali ricavare idrocarburi, i vegetali da seme, la floricoltura e le coltivazioni di piante ornamentali. Più in generale, il commento della Fai è il seguente: Risulta chiaro che le aree agricole del Nord del pianeta sono quelle sensibili alle conseguenze derivanti dalla moria delle api e ciò suggerisce che, nel proseguire del fenomeno di declino, si potrebbero determinare presto sostanziali mutazioni anche su flussi di scambio commerciale nel settore agroalimentare.
Come provano la letteratura e gli storici, incominciando da Aristotele, Plinio e Seneca, la convivenza delle api con l’uomo risale a migliaia di anni fa, forse tra 20 a 10 milioni, tanto che secondo alcuni storici sarebbe arrivato l’insetto prima dell’uomo il quale ha subito imparato a utilizzarne il miele come nutriente e dolcificante. L’archeologia del miele documenta questa alleanza, cosicché il nettare messo a disposizione delle api salì di prezzo diventando quasi come una moneta di scambio. Subito dopo il 200/300 dopo Cristo il miele acquisì il valore degli olii e dei vini migliori che richiese provvedimenti di calmiere. Infatti nel 301 nell’Editto di prezzi Diocleziano annoverò anche il miele. Dal 1600 il prodotto fornito dalle api riacquistò una notevole importanza accentuata dallo utilizzo nelle isole caraibiche dello zucchero dalla canna da zucchero e in Europa dello zucchero della barbabietola. Lo zucchero (dall’arabo sukkar) divenne così concorrente del miele, in genere esportato dall’Inghilterra. Nel 1806 Napoleone, proprio a difesa del miele e contro gli zuccheri di canna e di barbabietola, promulgò “un blocco” nei confronti dell’Inghilterra. Riprendendo lo antico spunto del miele, fra XVII e XVIII furono numerosi gli scienziati che si occuparono delle api, sezionandole anatomicamente e studiandone il loro assetto sociale negli alveari: il microbiologo olandese Jan Swammerdam(1637/1680) che per la prima volta determinò la composizione chimica del miele; il medico modenese Francesco Maria Savani il quale nel 1811 pubblicò un trattato completo sulle api; don Giacomo Angeleri(1877/1957) che scrisse un altro trattato importante, fondò un periodico sulle api di fama mondiale e tenne decine di lezioni sul mondo delle api, forse per la prima volta introducendo il tema dell’insetto come salvaguardia dell’ambiente.
Eravamo negli anni della divulgazione scientifica e delle cattedra ambulanti per accreditare fra i contadini una agricoltura moderna. Don Angeleri, coerente con l’enciclica Rerum Novarum di Leone XIII si occupò da vicino delle condizioni, talvolta miserande dei contadini, affrontò il comparto della apicoltura fino ad allora retaggio della borghesia di città. Don Angeleri, originario di Gamalero (Alessandria) trasformò il Piemonte in una delle regioni più importanti da un punto di vista dell’allevamento delle api, oggi con circa 42 mila alveari nel Novarese, nel Verbano Cusio Ossola, nel Vercellese e nel Biellese.
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